mercoledì 18 maggio 2016

Il mito delle sirene

In sintonia con una religiosità tellurica i popoli della preistoria e della protostoria mediterranea, in balia di forze occulte, elaborarono il concetto del divino, istituendo una miriade di pratiche religiose e di feticci magici di pietra, di osso o di legno come forma di captatio benevolentiae nei confronti della divinità primigenia; attorno ad essa si declinavano i misteri del cosmo, il conflitto tra il bene e il male e il legame con l’anima mundi ossia il respiro titanico della natura.


In un’atmosfera magico-sacrale si propagarono a macchia d’olio i culti del sole (fonte di luce e di calore nonché propulsore di tutti i fenomeni regolatori della vita sulla terra) e della luna (motore del flusso e del reflusso delle maree, dei ritmi biologici e del ciclo delle stagioni), entrambi associati all’universo dei simboli pertinenti al maschile e al femminile, ai fenomeni celesti, alla fertilità, alla caccia, agli animali totemici. Nell’ora più nera l’ultima pratica devozionale era riservata ai defunti che venivano seppelliti sia sotto cumuli di pietra sia in monumenti funerari di tipo megalitico. Nel primitivo fervore religioso in seno al culto dei morti si radicò anche quello degli antenati, che, nostalgicamente venivano risvegliati dal loro sonno profondo con danze di spiriti evocati da sciamani caduti in trance mistica indotta da sostanze oppiacee. Nella terra degli spiriti, di notte in preda al panico, l’uomo come gli animali si rifugiava in luoghi oscuri e tormentati inaspettatamente accesi dai lampi. Il trionfo umano sulla natura selvaggia fu suggellato con il fuoco (simbolo di catarsi ed elemento del quadro astrale, che oltre a riscaldare la vita la distruggeva per crearne un’altra) e con il sangue, linfa vitale, che scorreva nelle vene e sull’altare dei sacrifici. 

Nel coacervo di entità divine un posto d’onore venne riservato all’acqua in grado di fecondare il grembo della terra, assimilata alla primordiale madre di tutte le creature, destinata a dominare sovrana per secoli sino ad assumere personificazioni distinte e intimamente connesse ad unica divinità femminile dalla valenza multiforme. In una profusione di riti la Dea Madre veniva adorata in tutto il bacino del Mediterraneo orientale; per gli Assirio-Babilonesi era Ishtar, per i Fenici Astarte, per gli Egiziani Iside, per i Greci Rhea. 

Nelle vesti della potente dea anatolica Cibele, che cavalcava un cocchio trainato da leoni, veniva onorata a Pessinunte in Asia Minore sottoforma di una pietra nera, probabilmente un meteorite.
                                                                     
Nel 204 a.C., nella morsa di una crisi isterica collettiva, i sacerdoti romani, dopo aver consultato i Libri Sibillini, nel tentativo di scongiurare il pericolo di Annibale ormai alle porte di Roma, con il permesso di Attalo re di Pergamo andarono a prelevare la pietra nera in Frigia. Così la madre degli dei immortali, archetipo della Magna Mater, e, per certi versi, similare alla Mater Matuta (la madre propizia), divenne una delle divinità più venerate dai romani e dai popoli italici nel solco di preistoriche pratiche matriarcali, che affondavano le radici nel culto ancestrale della dea universale dispensatrice di vita e di morte.


Negli sconfinati campi della mente, che anelava a nutrire lo spirito oltre al corpo, la fertilità della terra era intimamente connessa a quella femminile; non a caso le donne venivano considerate come depositarie dei segreti della creazione, racchiusi nel ciclo mestruale e nel ventre che si trasformava nel corso della gravidanza; attraverso le vibrazioni dei secoli venivano ammirate con meraviglia e stupore in quanto elargitrici del miracolo della vita attraverso il parto, ma, soprattutto, artefici dell’agricoltura, nata diecimila anni fa nella mezzaluna fertile, allorquando venne piantato il seme dell’albero della civiltà. In Grecia mitica fondatrice delle tecniche agricole (aratura, semina e mietitura) fu Demetra figlia di Crono e Rea. Secondo il mito, la dea protettrice del matrimonio e delle leggi sacre in preda ad un furore vendicativo, innescato dalla scomparsa della figlia Kore (Persefone) rapita da Ade mentre giocava con le ninfe sulle sponde del lago di Pergusa, provocò una terribile carestia interminabile. 

Allora Zeus, nell’intento di placare l’ira della signora delle splendide spighe, fu costretto a scendere dall’Olimpo per contribuire al ritrovamento. Ma il signore degli Inferi, essendo riuscito con l’inganno a far mangiare sei chicchi di melagrana a Kore, condannò la fanciulla a trascorrere al suo fianco metà dell’anno per l’eternità. Sopraffatta dal dolore Demetra, dea della vita e della morte, a condizione di riabbracciare l’adorata figlia, cedette al turpe ricatto e, come per incanto, la terra rifiorì sotto i raggi del sole tiepido di primavera, e, come prestabilito dai cicli della natura, generò fiori e frutti in abbondanza per sfamare uomini e animali.


Dal germoglio del mito fiorì il culto tesmoforico di Demetra e Kore, praticato, sin dal VII sec. a.C., sotto forma di Mysteria nel tempio greco di Eleusi nell’Attica e di riflesso nella grotta di Monte Papalucio ad Oria in Messapia, dove, tra la metà del VI sec. a.C. e la prima metà del III sec. a.C., fu attivo un santuario di stampo magno-greco gestito da sacerdotesse abili a stringere nelle mani fiaccole ardenti. A documentarlo i reperti rinvenuti nel corso degli scavi archeologici, come, ad esempio, statuette in terracotta, raffiguranti una dea seduta in trono o madri con il figlio in grembo, cumuli di scarichi votivi, ricchi di campioni vegetali (grano, orzo, ceci, olive, fichi, fave, datteri e melagrane), oltre a semi di piante arboree e resti carbonizzati di animati sacrificati, in primis maialini, al fine di propiziare la fertilità all’uomo e alla natura.


Quando i popoli del mare andarono alla scoperta di nuove rotte si aprì la gloriosa parabola degli scali costieri e dei santuari deputati allo sbarco e allo scambio culturale e commerciale attraverso la redistribuzione interna dei prodotti. Seppur nella loro primitiva funzionalità essi si rivelarono strategici per barattare materie prime e manufatti; per il rifornimento di acqua dolce e per elevare una preghiera di ringraziamento agli dei, che avevano concesso a quei temerari navigatori una favorevole traversata. 


Lungo l’insenatura di Porto Cesareo a Scalo di Furno, così come emerso dal ritrovamento di un vaso votivo del VI sec. a.C., intorno ad are-focolari veniva venerata la divinità di origine illirica Tana da associare alla dea greca Artemide, dea della caccia, della luce lunare e di tutti gli incantesimi.

Per secoli colonne di fumo si levarono in cielo lungo i promontori merlati dell’antico Salento. Quando imperversava il vento salivano sino alle nuvole dalla calotta della Grotta Poesia a Roca, dove i naviganti, che ormeggiavano per attingere acqua dolce dalla sorgente interna alla cavità carsica, dopo aver presentato le offerte votive, incidevano sulle pareti epigrafi in onore di Damatira (Demetra) e di Taotor Andirahas latinizzato Tutor Antraio, Andraius o AndreusNella galassia dei santuari costieri lungo i litorali del Salento un ruolo predominante rivestirono la Grotta S. Cristoforo su Punta Matarico nella baia di Torre dell’Orso e il polo santuariale su Punta Meliso, dedicato ad Athena, speculare a quello su Punta Ristola, dove nel santuario emporico di Grotta Porcinara i marinai rendevano grazie al dio messapico della navigazione Zis Batas surrogato in età romana da Iuppiter Batius. L’approdo connesso alla grotta divina, incastonata tra le candide scogliere dell’Akra Japyghia corrispondente al Capo di Leuca, funzionò dall’VIII sec. a.C. al II sec. d.C. intorno al grande focolare (eschara), che raccoglieva le ceneri degli olocausti offerti alla divinità encoria considerata dominatrice degli eventi atmosferici e del disco solare.



Luoghi teofanici, funzionali ai culti agrari e a quelli misterici, si svilupparono anche alla convergenza dei siti messapici ubicati tra entroterra e costa. Con fervore struggente nei pressi di risorgive d’acqua dalle proprietà terapeutiche andavano in scena riti salutiferi di abluzione e di propiziazione della fertilità femminile e della virilità maschile, culminanti con l’offerta di primizie ed ex voto. I nuclei cultuali vennero delimitati da recinti sacri, costituiti da cippi in calcare, che fungevano da anello di protezione e di delimitazione degli spazi territoriali; all’interno di questi segnacoli in pietra si celebravano arcaiche liturgie per evocare gli spiriti degli antenati. Nell’insediamento messapico di Vaste venne attivato un impianto cultuale in Fondo Melliche, dove, ai piedi dei cippi della seconda metà del VI sec. a.C., si celebrava un rito propiziatorio nel tentativo di garantire prosperità ai campi e agli uomini.





Il cerimoniale prevedeva lo spargimento di libagioni agli dei accompagnato dalla deposizione di doni votivi consistenti in frutti e serti di spighe. I Messapi, attraverso i culti, oltre a stabilire un’interazione con il divino tentavano di scongiurare la penuria di cibo e le carestie.






Nella forma mentis greca, le divinità, soggiogate da vizi e virtù e da pregi e difetti simili in tutto e per tutto a quelli del genere umano, non esitavano a scendere dal monte Olimpo allo scopo di proteggere, tramare, punire o accoppiarsi con i comuni mortali, che, non di rado, bramavano uno spicchio d’immortalità. Con i Misteri Eleusini si spalancarono gli orizzonti delle Grandi Feste collettive in onore di Demetra e Kore nel tentativo di sublimare la funzione ideologica della morte iniziatica. Essa segnava un momento di transizione verso una nuova condizione ritenuta fondamentale per una rigenerazione in sintonia con la metafora del chicco di grano occultato e destinato a morire nella terra per trasformarsi in spiga. Tale filosofia ruotava anche intorno al mito egiziano della divina coppia di Iside, regina del cielo, e Osiride, re dell’Oltretomba. Secondo il mito, Osiride, spirito del grano e del sole, aveva insegnato agli uomini l’agricoltura, e, in suo onore, gli Egiziani, nel mese della semina, interravano nei campi un covone di grano dell’anno precedente in attesa della maturazione delle spighe fecondate dal limo del Nilo. In virtù di questa pratica rituale si ripercorreva allegoricamente la drammatica vicenda terrena del primo faraone che, dopo aver regnato per diciotto giorni, venne barbaramente trucidato e smembrato dal fratello Seth, il quale, per vendetta ne disperse i resti mortali. Iside, dopo lunghe peregrinazioni, riuscì a ritrovarli e con la sua arte magica si adoperò alla ricomposizione del corpo dell’amato marito, concedendogli la possibilità di resuscitare e di divenire il giudice dei morti. Il pane, in sua memoria, divenne allegoria della vita e per questo motivo iniziò ad essere deposto nelle tombe e raffigurato sulle pareti delle camere funerarie allo scopo di essere fonte di nutrimento per i corpi in attesa della resurrezione. 


D’altronde l’anima per varcare la soglia dell’eternità aveva bisogno del corpo, che doveva essere imbalsamato e deposto in sarcofagi, protetti da amuleti e sortilegi, ai fini di una sopravvivenza oltre la morte; non a caso il destino più crudele per un egiziano era quello di essere abbandonato senza aver ricevuto una degna sepoltura. Tale trattamento oltraggioso era riservato a coloro che si fossero macchiati di atti efferati e sacrileghi o avessero congiurato contro il faraone. In questo caso il signore dell’Alto e del Basso Egitto oltre a decretarne la condanna a morte, disponeva che venissero bruciati vivi e le loro ceneri sparse al vento. All’ombra delle piramidi, la vita degli Egiziani, cullata dal fiume Nilo e baciata dal loro sole, venne sopraffatta dall’ossessione per l’al di là sino all’esasperazione del culto dei morti, celebrato con formule magiche, sapientemente elaborate dai sacerdoti, al fine di respingere dalle camere sepolcrali, traboccanti di tesori, non solo gli spiriti maligni, ma anche i profanatori di tombe contro i quali venivano lanciati anatemi terrificanti.

Un altro mito maturò nell’humus del grano accarezzato dal sole: quello degli Argonauti. I valorosi guerrieri, guidati da Giasone, spodestato dal trono di Iolco dallo zio usurpatore Pelia, salparono sulla nave Argo per andare alla conquista del vello d’oro. Esso era custodito da un drago dalle mille spire nel bosco sacro ad Ares nella Colchide, una terra ubicata tra le sponde orientali del Mar Nero e il Caucaso. Sulle note della lira di Orfeo e confidando nell’imbarcazione, investita del potere della profezia visto che la polena era stata intagliata con il legno parlante della quercia sacra di Dodona, Giasone, sbarcò nel regno di Eeta, figlio di Helios (il Sole), ed affidandosi agli incantesimi di sua figlia, la principessa Medea, che si era follemente innamorata di lui, riuscì ad impossessarsi del leggendario vello d’oro. Secondo la leggenda quel mantello, asportato ad un ariete sacro offerto in olocausto agli dei, era stato cosparso dalla preziosa polvere d’oro reperibile in quella regione; non di rado i suoi abitanti la cercavano immergendo pelli di pecora nell’acqua dei ruscelli che poi setacciavano con le loro abili mani. Giasone, pur di portare a termine quella missione, fu costretto dal re dei Colchi non solo a domare due tori, ma anche ad arare un terreno mai dissodato e a seminare denti di drago, dai quali nacquero uomini armati che, a colpi di spada, l’eroe greco, non esitò a falciare. In quell’epoca della Grecia antica grande risalto si dava alla metafora della semina dei chicchi e della mietitura delle bionde spighe, spalancando il sipario sui campi di grano, che si estendevano a perdita d’occhio sulla soglia orientale del mondo allora noto ai Greci da sempre spinti dalla tentazione irrefrenabile di colonizzare quel territorio ricco tra l’altro di miniere di oro, argento, ferro e rame oltre a terra da coltivare.


Intorno al grano si dipanavano alcuni tra i più suggestivi miti pagani, che, per sincretismo, vennero accolti e rivisitati dalla religione cristiana o viceversa dal momento che le influenze furono reciproche. Nel mondo antico a contribuire in modo straordinario allo sviluppo del monoteismo fu il culto persiano del dio della luce: Mithra. La storia del mandriano di stelle, articolata in diversi episodi, ruotava intorno al sacrificio del toro, dalla cui morte veniva sprigionata la vita. L’iconografia di tale evento dominava nei mitrei, dove venivano celebrati sacrifici rituali e banchetti cultuali a base di pane, acqua e vino. Oltre al dio ed al toro rientravano nella tauromachia diverse figure allegoriche, come, ad esempio, un cane, un serpente, uno scorpione, una lucertola, un corvo nero e un fascio di spighe di grano. Gli adepti, in aderenza alle religioni misteriche, erano ammessi attraverso un cammino esoterico a patto di non rivelarne i segreti. L’ingresso era riservato ai soli uomini e l’iniziato progressivamente poteva accedere ai sette livelli della gerarchia: corax (corvo), nymphus (sposo mistico), miles (soldato), leo (leone), perses (persiano), heliodromos (corriere del sole), pater (padre). 


L’iniziazione segreta, la disciplina gerarchica, i contenuti etici del mitraismo, intriso del concetto di eterna lotta tra il bene e il male, e, infine, il messaggio salvifico attraverso le stelle, costituirono il segreto del successo dei misteri di Mithra, che spopolarono tra i legionari romani e di riflesso tra gli imperatori adusi a venerarlo come Sol Invictus, poiché segnava la vittoria della luce sulle tenebre. Per le stesse prerogative, senza mai essere investito del crisma di religione ufficiale, il mitraismo, che si innestava sulla festa più antica dei Saturnali, sedusse gli strati più umili della popolazione in cerca del riscatto. Proprio tra poveri, emarginati e oppressi, che agognavano al regno dei cieli, germinò il virgulto dell’altra grande religione monoteista dell’epoca: la religione cristiana, che, per certi versi, viaggiava su binari paralleli, pur traendo origini dall’ebraismo, promosso dalle Sacre Scritture, e dalla disperata attesa di un messia investito del ruolo politico di liberatore della Terra d’Israele dal dominio romano. Oltre alla matrice orientale molti erano i punti in comune tra i due culti anche se il mitraismo prometteva la liberazione dalle catene del fato e non la redenzione eterna attraverso il sacrificio del Figlio di Dio come il cristianesimo. Secondo la leggenda Mithra nacque da una roccia primordiale con una fiaccola tra le mani, pronto a scoccare una freccia per farne sgorgare acqua, esplicito rimando al battesimo cristiano, che purificava l’uomo dal peccato. 


Convertito il Sole ai propri misteri ne ricevette in dono un’aureola sfavillante, palese richiamo al nimbo zoroastrico, ritratto intorno al capo dei personaggi cristiani, e al pane eucaristico raffigurato come disco solare del tutto simile all’ostia esposta negli ostensori per essere adorata e distribuita dai sacerdoti come comunione sulla scia del sacramento dell’eucarestia, istituito da Gesù nel corso dell’ultima cena.
Nelle vesti di dio aureolato, sulla scia del babilonese Tammuz, Mithra, per decreto degli imperatori Settimio Severo (220 d.C.), Eliogabalo (220 d.C.) ed Aureliano (274 d.C.), che si facevano adorare come divinità orientali, veniva celebrato con l’accensione di fuochi in coincidenza del solstizio d’inverno, quando le giornate iniziavano ad allungarsi e a diventare più luminose. Con l’intento di attrarre nuovi proseliti di altre religioni, il cristianesimo si chinò come una canna verso la religione del Sole sino al punto che, a partire dal 337 d.C., il 25 dicembre, dies natalis solis invicti, ossia il giorno della nascita del Sole Invitto, divenne il natale di Gesù Cristo e finì con il coincidere anche con il dies Dominicus, la domenica, coincidente con il giorno del Signore, che, secondo la tradizione, morì a 33 anni come Mithra. 



In prospettiva di un sincretismo religioso fu il pontefice Giulio I, senza alcuna rispondenza nei Vangeli, a fissare questa data nel calendario liturgico romano, appellandosi al Concilio Ecumenico di Nicea del 325 d.C.. Nel corso di quella sacra assise, l’imperatore Costantino, nell’intento di uniformare il credo romano, fece confluire i precetti di ben ventidue religioni politeistiche in un’unica religione monoteistica e universale in nome del Cristo Luce da Luce. Nell’incessante opera di proselitismo il giorno della festività del dio petrogenito persiano corrispose alla natività del dio cristiano della luce. Tuttavia il messia, riprendendo un’affascinante teoria basata su calcoli astrali, nacque in una grotta a Betlemme (casa del pane), non il 25 dicembre, ma molto probabilmente il 17 aprile dell’anno zero durante il transito di Giove nella costellazione dell’Ariete in una notte rischiarata da una stella cometa e dai fuochi di umili pastori, che non potevano trovarsi lì con il loro gregge se fosse stato in pieno inverno. La mossa strategica, al di là delle speculazioni teologiche e filosofiche, era dettata soprattutto dal tentativo di estirpare nel modo meno traumatico le profonde radici di un paganesimo ostinato a vivere, ma destinato a morire. Nel contrasto esacerbato tra le due comunità rivali, la vittoria fu riportata dai seguaci di Gesù, chiamato il Cristo, in virtù dell’editto costantiniano del 313 d.C., che sanciva la libertà di culto per i cristiani; pur rimanendo ai margini della società essi erano stati perseguitati e martirizzati, a partire dal regno di Nerone, poiché considerati membri di una setta eversiva segreta, che, per giunta, si rifiutava di offrire sacrifici e incenso agli dei del pantheon romano. La restaurazione pagana del colto imperatore Giuliano, soprannominato l’Apostata (361-363 d.C.), seppur per un breve lasso di tempo, consentì una flebile ripresa del culto di Mithra, arginando razzie e devastazioni barbariche già pericolosamente messe in atto nei confronti di mitrei e templi pagani; i fanatici cristiani, infatti, in preda ad un eccesso di zelo, non esitavano ad incendiarli nonostante al loro interno si rifugiassero i pagani per trovarvi scampo. Sulle loro vestigia vennero erette chiese e basiliche con l’obiettivo di sterminare i falsi idoli e sancire il trionfo della croce decretato dalla rivoluzione costantiniana, che trasformò quel culto oscuro venuto da lontano in religione imperiale.






Costantino l’usurpatore, destinato a divenire imperatore per intervento divino, al momento di schierarsi in campo con le legioni contro Massenzio al ponte Milvio, non esitò a ostentare il vessillo cristiano sugli scudi e sulle insegne militari, essendo rimasto impressionato, a quanto pare, o da un segno luminoso in cielo, sprigionato da una scia luminosa da interpretare presumibilmente come un meteorite cadente, o da una visione onirica infervorata dalla superstizione e tramandata dalle fonti letterarie di matrice cristiana.




Sulla base di un racconto di nessuna attendibilità, ambientato, alla vigilia della battaglia nell’accampamento lungo la via Flaminia, i poteri soprannaturali di un segno simile ad una croce o piuttosto al monogramma di Cristo, il cosiddetto ChiRho, avrebbero assicurato al “fondatore” della religione cristiana, secondo la versione greca: en touto nìka, secondo quella latina: in hoc signo vinces ossia la vittoria e di conseguenza l’ascesa al soglio imperiale. E il 28 ottobre del 312 così fu. Sconfitto il tiranno di Roma, il figlio di Costanzo Cloro e di Elena, proclamata santa e ricordata dalla cronache ecclesiastiche per essersi recata a Gerusalemme allo scopo di ritrovare le reliquie dell’autentica croce sulla quale venne crocefisso il profeta di Nazareth, per opportunismo si convertì al cristianesimo, investendo la Chiesa del ruolo di collante culturale e sociale di un impero universale. Al di là dei risvolti magici e religiosi il cinico imperatore, animato da inimmaginabile crudeltà, più dalla fede fu spinto ad abbracciare il cristianesimo dalla ragion di stato nel tentativo di rendere assoluto un potere imperiale frammentato, che, lentamente, ma inesorabilmente rischiava di disintegrarsi a causa delle aggressioni esterne e delle lacerazioni interne. E quando, dopo la tempesta della guerra, sopraggiunse la quiete della pace, con lungimirante mossa politica, il liberatore di Roma, nonché restauratore dell’unità dello Stato, dislocò la capitale dell’impero da Roma sul sito dell’antica colonia greca di Bisanzio lungo le rive del Bosforo. Per oltre un millennio rifulse in tutto il suo splendore la nuova Roma, ossia la gloriosa Costantinopolis, la città fondata tra il 328 e il 330 da Costantino il Grande. Sovvertendo le regole, il primo imperatore cristiano, spostando il baricentro da un Occidente, logorato e minacciato da lotte di successioni e orde barbariche, verso un Oriente, florido e incline ai commerci a largo raggio, mutò per sempre il corso della storia. Nel 476 d.C., alla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, Costantinopoli divenne l’unica capitale di un vasto impero, che, sin dal 610, anno dell’ascesa al trono di Eraclio I, era divenuto a tutti gli effetti bizantino, fungendo per mille anni da estremo baluardo cristiano almeno sino al colpo mortale inferto dalle armate della mezzaluna islamica.



Nel 1204, gli avidi crociati, nonostante il ruolo strategico imprescindibile, saccheggiarono il baricentro bizantino per sete di bottino, profanando chiese, palazzi e monasteri nell’intento di depredare, ori, preziosi, gioielli, arredi sacri e persino i corredi funerari dei sepolcri imperiali. 






Nel delirio dei predatori crociati la città, considerata scismatica, fu costretta ad assistere impotente alla devastazione della basilica di Santa Sofia (Hagia Sophia) edificata (dal 532 al 537) e resa spettacolare dal grande Giustiniano. 





Tra cembali e tamburi il 29 maggio 1453, dopo aver respinto eroicamente in vari tempi e vari modi gli assalti turchi sempre più frequenti, la città cristiana, anche se di fede greco-ortodossa, capitolò definitivamente sotto i colpi delle bombarde ottomane. A nulla valse il disperato tentativo di resistenza dell’imperatore Costantino XI Paleologo. L’ultimo basileus, dopo aver tentato invano un fronte comune tra Chiesa cristiano-ortodossa d’Oriente e Chiesa cattolica romana d’Occidente, separate dallo Scisma del 1054, fu lasciato a combattere e a morire in battaglia insieme a un manipolo di valorosi soldati.


La metropoli dalle cupole d’oro, isolata, protetta da mura sgangherate e trasformata in polveriera, si arrese sotto la grandinata dei proiettili del sultano Maometto II, detto Humkar (l’assetato di sangue), che l’assediò per terra e per mare con l’intenzione di farne la nuova capitale dell’impero turco-ottomano. Costantinopoli, rinominata Istanbul, seppur lo spirito imperiale bizantino continuasse ad aleggiare, cambiò radicalmente volto nel momento in cui la basilica cristiana, dedicata alla divina sapienza (Hagia Sophia) venne convertita in una moschea circondata da minareti; il mosaico del Cristo Pantocratore venne occultato insieme agli altari divelti per sempre. Al soffio dell'impetuoso vento musulmano il sipario calò sul culto delle icone sacre della cristianità. 



Qualche anno più tardi, in prospettiva espansionistica verso Occidente, su ingiunzione del sanguinario sultano, la flotta turca, diretta a Brindisi, a causa di una violenta tramontana, ripiegò su Otranto, dove si consumò il brutale eccidio del vescovo, del clero e del popolo.



In un gesto estremo, ispirato forse da una flebile speranza di pietà, uomini inermi, donne e bambini, si barricarono nella cattedrale, che venne lordata di sangue e trasformata in una stalla.  Il loro assassinio fu dettato dal fatto, che, sin dall’alba del 28 luglio 1480, dal momento in cui dal comandante musulmano, Gedik Ahmet Pascià, venne inviato un ambasciatore allo scopo di offrire pace e a chiedere servitù, essi opposero un netto rifiuto alla negoziazione della resa, sprangando le porte del borgo e facendo scagliare le chiavi in mare dal maggiorente Ladislao De Marco in segno di sfida; in cuor loro nutrivano l’errata convinzione di poter resistere almeno sino all’arrivo del contingente inviato dal re di Napoli, invece, ad onta dei loro sforzi e delle loro preghiere, dovettero fare i conti con il ritardo fatale dei rinforzi e con le defezioni di alcuni soldati spagnoli lì stanziati, che dileguandosi nottetempo, abbandonarono gli assediati al loro triste destino. L’11 agosto dello stesso anno, quando i Turchi a colpi di artiglieria penetrarono attraverso una breccia nella città, a nulla valsero i disperati tentativi di opposizione da parte del capitano Francesco Zurlo e Giovanni Antonio de Li Falconi, che vennero barbaramente trucidati insieme a Francesco Largo, segato vivo, e ai soldati della guarnigione, mentre tante donne indifese venivano violentate e ingravidate tra gli angusti vicoli acciottolati. Fu un bagno di sangue. 



Nel fosco orizzonte di quella carneficina, difficile da calcolare a causa della discrepanza delle fonti, si contarono all’incirca dodicimila morti e cinquemila schiavi, ma non era ancora finita. In concomitanza di quel tragico sacco, il 12 e non il 14 agosto, così come asserito dalla tradizione devozionale, circa ottocento idruntini vennero decapitati sul colle della Minerva a partire da Antonio Pezzulla, detto Grimaldo o Primaldo, il cui corpo decollato rimase in piedi sino all’ultima decapitazione. Sebbene i testimoni oculari non accennassero a nessuna costrizione di conversione all’Islam, su disposizione di Alfonso, duca di Calabria, fiorirono una letteratura e un’arte funzionali all’esaltazione di quel massacro, a quanto pare, avulso da logiche confessionali, ma imputabile innanzitutto alla rappresaglia scaturita da una strenua resistenza da parte della popolazione, che confidava nella fede e nella dinastia aragonese. 
In base alla legge coranica, infatti, era vietato massacrare chi rinunciava a priori a combattere sino al punto da  agevolarne il riscatto dalla schiavitù dietro pagamento e concederne il trasferimento in un luogo prescelto. D’altronde occorrevano fiumi di danaro per sostenere un esercito sterminato, come quello turco, che, attraverso incursioni anfibie, era avvezzo a foraggiarsi con razzie e saccheggi e in modo particolare con il bottino degli schiavi destinato ad essere investito altresì nella jihad e nelle elemosine per le opere di carità riservate ai musulmani in difficoltà. Nel caso specifico non è da escludere che i condannati al patibolo sul colle della Minerva avessero raggiunto un’età sin troppo avanzata per essere schiavizzati o peggio ancora non disponessero di risorse finanziarie adeguate per pagare il prezzo del riscatto. 



Secondo il giudizio della Chiesa, che nel 1771 li ha beatificati e nel 2013 li ha canonizzati, a pesare sulla loro triste sorte gravò la rinuncia all’apostasia e non la contingenza di essere venduti come schiavi; con impeto drammatico, senza se e senza ma, scelsero la corona del martirio, andando incontro alla morte in nome della fede nel solco del temerario vescovo Stefano Agricoli e del colto monaco italo-greco Macario Nachira precedentemente assassinati. Sulla scia della leggenda la suggestione emotiva di quella terrificante esecuzione di massa fu talmente scioccante da indurre alla conversione persino il boia ottomano, tal Berlabei, che, come ricorda la lapide sul luogo del martirio, senza esitazione venne fatto impalare da Ahmet Pascià. 







I Turchi, mentre i vari potentati sul suolo italico continuavano ad accapigliarsi, non erano più un miraggio; avevano creato un varco attraverso il Salento, porta d’Italia e d’Europa, e minacciavano in nome di Allah di marciare verso Roma, cuore pulsante della cristianità. La curia romana in preda al terrore si rivolse a Sisto IV affinché tessesse le reti di un’alleanza tra i vari stati italiani in prospettiva di un imminente attacco. Il pontefice, dopo aver contemplato un trasferimento ad Avignone, desistette per dedicarsi all’allestimento di una lega militare nell’ottica di un riscatto armato, animato da rinnovato spirito crociato. Nel fanatismo musulmano e nell’intolleranza cristiana, che ormai da secoli dilagava per la questione della liberazione di Gerusalemme, si annidava il germe di una cruenta guerra santa in nome di Cristo e del profeta Maometto e di uno scontro tra civiltà senza soluzione di continuità; la promessa per chi moriva in battaglia in nome della fede era rispettivamente la ricompensa celeste di un’eterna felicità o l’accordo dell’indulgenza plenaria. Qualunque sia l’esegesi dei fatti accaduti nel 1480 ad Otranto l’eroico sacrificio degli sventurati abitanti non fu vano, anzi permise di costituire, molto più di quello che si possa immaginare, una coalizione cristiana determinata a contrastare il minaccioso pericolo islamico. 
Maometto II, il Conquistatore di Costantinopoli, una volta espugnata la città salentina non solo disponeva di una base strategica per dominare l’Adriatico, ma poteva per di più perseguire il disegno di emulare l’imperatore bizantino Giustiniano, convogliando truppe ed estendendo la propria autorità di sovrano sull’Italia. Nel maggio 1481, per ironia della sorte, la morte lo colse a cinquantadue anni, innescando una sanguinosa lotta di successione tra i suoi eredi, e, nel volgere di poco tempo, il suo ambizioso sogno si dissolse nel nulla. Alfonso, figlio del re di Napoli Ferrante d’Aragona, approfittando della scomparsa del crudele sultano e dell’arruolamento di un esercito di liberazione, si adoperò alla riconquista del borgo occupato dai turchi e il 10 settembre 1481 con il supporto della flotta pontificia e dei nobili cavalieri salentini, che sposarono la causa, li ricacciò in mare. I soldati ottomani, lasciati dal Pascià a vigilare l’avamposto, popolato da un cumulo di macerie, anziché combattere, in presa alla fame, preferirono salpare, conducendo sulle loro barche numerose fanciulle del posto; tuttavia non si trattò di rapimento visto che quasi tutte con trattenuta rassegnazione scelsero volontariamente l’esilio per non essere tacciate di collaborazionismo o di aver abiurato la religione cristiana, senza tralasciare il fatto che a spingerle alla fuga subentrarono anche i sentimenti nei confronti di quei forestieri, che, in molti casi, le avevano rese o le stavano per rendere madri, lusingandole con la promessa di una vita migliore. Subito dopo la riconquista, il duca di Calabria, implementò il castello e il 13 ottobre 1481 con un sospiro di sollievo fece traslare i resti ancora insepolti dei martiri dal colle della Minerva nella cripta della cattedrale, purificata da ogni sorta di nefandezza, per consegnarli al di là da venire alla venerazione popolare e alla recita di un’ode all’immortalità.





















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