sabato 19 marzo 2016

Il culto delle effigi sacre

Con impeto drammatico, sotto la spada di Costantino e la scure di Teodosio, il paganesimo cadde trafitto sotto il pesante peso della croce. 


Sulle note del canto del cigno, i falsi idoli esalarono l’ultimo respiro, e il cristianesimo trionfò sul palcoscenico dell’impero romano da tempo nel mirino delle popolazioni barbariche, in primis i Goti, che scalpitavano lungo i confini. Nel 380 d.C. con l’editto di Tessalonica, promulgato dal generale vittorioso Teodosio, acclamato augusto, il cristianesimo divenne l’unica religione consentita (religio licita). A quel punto tutti gli sforzi furono protesi nel far rifulgere, in un cielo popolato da divinità rosse dalla vergogna, l’astro di una divinità una e trina nel respiro del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, ossia di Gesù Cristo Figlio di Dio, generato e non creato della stessa sostanza del Padre, confutando e condannando l’eresia ariana già bandita dai vescovi riuniti a Nicea. La fine del paganesimo ormai segnata sfociò con lo smantellamento dei templi degli idolatri e con l’esilio delle divinità condannate ad inabissarsi nella polvere dell’oblio, mentre lentamente, ma inesorabilmente l’impero romano si sgretolava.

In un contesto storico dilaniato da lotte di potere, mentre la politica di classe continuava ad acuire divari incolmabili, la religione cristiana si rivelò una dottrina deputata ad avvicinare gli animi e l’arte classica uno strumento adatto a conquistare il consenso del popolo attratto irresistibilmente dal fascino del trascendente. Il divino cominciò ad essere espresso attraverso un linguaggio simbolico e un repertorio figurato comprensibile a tutti per il suo valore universale, nonostante la tentazione idolatrica della rappresentazione della divinità rischiasse di prendere il sopravvento. La religione cristiana, a scanso di equivoci, sulla scia di quella ebraica non esitò a condannare l’idolatria; tra l’altro, per gli artisti, non avendo riferimenti in merito all’aspetto di Dio e del suo Figlio Unigenito, sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento o negli Atti degli Apostoli, era difficile se non impossibile cimentarsi nella riproduzione delle effigi sacre. Nel Libro del Deuteronomio continuava a tuonare il monito: “non ti farai immagine alcuna di Dio e non ti prostrerai davanti a nessun idolo”; eppure Mosè in controtendenza fece intarsiare due cherubini in oro sul coperchio dell’Arca dell’Alleanza, il primo tabernacolo della storia, destinato a contenere le Tavole della Legge dettate direttamente da Dio tra il crepitio dei rovi del Sinai. 


Per rendere visibile l’invisibile i primi cristiani, attratti dall’influsso dell’arte figurativa classica, ricorsero a suggestivi simboli dal potere evocativo, riportandoli sulle pareti delle gallerie e delle catacombe, dove erano sepolti coloro che avevano versato il sangue a testimonianza della fede in Gesù, chiamato il Cristo, in attesa della resurrezione della carne il giorno del Giudizio.



Tra il II e il V sec. d.C. tra le mura di questi cimiteri esplose prepotentemente un’arte, che si esaurì soltanto con la traslazione delle spoglie mortali dei martiri dai cubicoli delle catacombe agli altari delle chiese. In quel frangente i santi cristiani, così come gli dei greci, divennero protettori di ogni cosa, di ogni persona e di ogni attività, aleggiando tra i vivi con il loro spirito metafisico. I fedeli, per assicurarsi la loro intercessione nel regno dei cieli, si radunavano per pregare nelle domus ecclesiae e nei templi pagani convertiti in luoghi di culto cristiani sul modello dello schema planimetrico delle basiliche romane. Alla luce del sole, dopo le terrificanti persecuzioni, irruppero prepotentemente sulla scena i rituali di una religione monoteistica ormai senza rivali. La sua dottrina era avvalorata da una concezione intrisa di profonda spiritualità oltre ad essere alimentata da un rivoluzionario messaggio d’amore universale e d’uguaglianza di tutti gli uomini di fronte all’unico vero Dio. 





I Padri della Chiesa, ricorrendo alla metafora dell’incarnazione del Figlio di Dio, riuscirono a sdoganare, nonostante i veti dell’Antico Testamento, il culto delle immagini. Dal repertorio classico e da quello giudaico vennero attinti segni simbolici come: il pesce, la palma, la colomba, il pavone, l’orante, il cervo, il pane e il vino.


Il cristianesimo delle origini, intimamente radicato nell’ebraismo, non di rado si prodigò nella rievocazione di sequenze connesse a personaggi dell’Antico e del Nuovo Testamento. Il vasto repertorio di ibridi teologici divenne strumento di propaganda della nuova fede, stimolando la curiosità anche da parte degli analfabeti, che si affidavano alle immagini per comprendere il significato delle Sacre Scritture. Nei secoli si assistette ad un mutamento di canoni stilistici, che variarono dal giovane maestro coi capelli corti, colto nell’atto di predicare ed operare miracoli, all’uomo maturo coi capelli lunghi e barbato, assiso in trono. 


Su influsso delle divinità pagane il Cristo generalmente veniva ritratto in atteggiamento austero e in abiti sontuosi in segno di regalità oltre ad essere circonfuso nella gloria di Dio Padre Onnipotente. Secoli dopo questa tendenza si consolidò, fondendosi e confondendosi con gli stilemi iconografici bizantini. In un fervore religioso, alimentato dai monasteri orientali, si propagò a macchia d’olio la devozione nei confronti  delle icone almeno sino a quando non scoppiò la guerra iconoclastica fomentata da imperatori interessati politicamente ed economicamente ad arginare un fenomeno ormai dilagante. Tra il 726 e il 730 Leone III Isaurico scatenò una guerra senza quartiere contro il culto delle immagini, bandito sia dall’Antico Testamento sia dal Corano, poiché le rappresentazioni sacre costituivano oggetto di venerazione, ma non di adorazione, riservata esclusivamente alla divinità. 









In realtà l’intento dell’imperatore bizantino era quello di sgominare i monaci, che traevano un notevole profitto attraverso il lucroso commercio delle icone sacre, depauperando le casse imperiali. In questo clima di intolleranza religiosa maturò l’offensiva contro il monachesimo orientale condannato all’esodo per non soccombere.


I monaci, nel tentativo di sfuggire alla persecuzione imperiale, furono costretti ad emigrare in drappelli dall’Oriente in Occidente via terra e via mare. Dopo aver affrontato infinite traversie sbarcarono lungo le coste salentine e trovarono rifugio in cenobi e laure (come quelle della Valle della Memoria solcata dal fiume Idro ad Otranto) il più delle volte scavati nella roccia. Per un lungo intervallo di tempo, lontani geograficamente dalle rappresaglie di Bisanzio, i religiosi italo-greci, continuarono incessantemente a pregare e a venerare, avvolti nel fumo delle candele e in nugoli di incenso, le effigi sacre che si erano prodigati a dipingere lungo i muri e sulle volte dei complessi rupestri convertiti in luoghi di culto e celle.



All’ombra di cripte come quella di: Santa Marina a Muro Leccese; Santa Maria degli Angeli a Poggiardo; Santa Cristina a Carpignano Salentino; Santa Maria della Grotta a Ortelle; Santa Marina a Miggiano; Madonna del Gonfalone a Tricase; Santa Apollonia a San Dana; San Giovanni a Giuggianello; Sant’Onofrio a Castrignano dei Greci; San Nicola di Myra a Mottola; San Biagio a San Vito dei Normanni; San Mauro ad Oria; della Madonna delle Grazie a San Marzano di San Giuseppe; della Favana a Veglie; del Crocefisso ad Ugento e a Massafra; dei Santi Stefani a Vaste, e, in molte altre sparse in tutto il territorio pugliese, continua a sopravvivere la memoria della loro pratica devozionale verso immagini celestiali senza tempo sbiadite dall’incenso. 





Esse, in qualche caso, vennero corredate di cartigli in lingua greca a memoria imperitura di eventi e di nomi di offerenti. A dominare la scena dell’universo dei monaci italo-greci non solo il Cristo Pantocratore, ma anche santi coronati da nimbi, angeli equipaggiati di ali smisurate, eremiti ricoperti da pelli di capra, vescovi benedicenti secondo la consuetudine orientale, profeti e madonne indicanti la via della salvezza. Immobili nei secoli nella loro ieraticità queste figure bidimensionali, che, in molti casi, paiono venir fuori dalle pareti per sfuggire alla muffa, colpiscono per la fissità degli occhi a mandorla sgranati e per l’espressione delle bocche serrate in un’apparente sospensione assurta a tipica espressione della grazia divina sapientemente catturata dall’arte bizantina con lo sguardo fisso verso l’eternità.















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