martedì 22 marzo 2016

Il trionfo della croce...tra vittime e carnefici

L’esortazione costante al popolo analfabeta di offrire la pratica devozionale della corona del rosario come una ghirlanda di rose mistiche alla Madonna risale al lontano 1214, allorquando, secondo la leggenda, Domingo Guzman de Calaruega, canonico regolare del Duomo di Osma, ricevette in dono dalla Beata Vergine il primo rosario, detto anche salterio, quale strumento per combattere le eresie e contrastare gli effetti devastanti della Riforma protestante. 

La predicazione del canonico divenuto santo fu incentrata, infatti, sulla divinità di Maria e sulla recita del rosario per annientare l’eresia, in modo particolare quella albigese. Con questo obiettivo il 20 aprile del 1233 Gregorio IX emanò la Bolla che affidava ai seguaci di San Domenico il privilegio di aggredire e sradicare l’eresia. Con l’istituzione del Tribunale dell’Inquisizione, deputato a comminare agli eretici una condanna esemplare, culminante in genere con la condanna al rogo, la Chiesa si dotò di un’arma letale. I Domenicani, investiti del compito di giudici supremi, si mobilitarono caparbiamente per difendere la retta via dell’ortodossia. Ma la loro crociata, implementata più tardi dall’ingerenza della Corona di Spagna, sfociò con inimmaginabile crudeltà nella brutale repressione del tribunale speciale della Santa Inquisizione e nella dittatura dispotica del Santo Uffizio deputato a mettere al bando i libri proibiti nel tentativo di rendere obbediente il popolo ignorante e di ingabbiare la libertà di pensiero degli eruditi, che potevano distogliere con la ragione la massa rozza e soffocata da un legame di schiavitù con la terra e la religione instrumentum regni.



Nel segno dei tempi i Frati Predicatori da raffinati teologi si trasformarono in crudeli inquisitori, accanendosi contro pagani ed eretici, che, al cospetto del crocefisso velato, venivano sottoposti a torture inaudite prima di essere purificati dalle fiamme del rogo. Il loro inquisire, andando alla ricerca della verità, si rivelò funesto per migliaia di sfortunati, che, per disparati motivi, in primis il patrimonio posseduto, finivano nel mirino del tribunale speciale. E venne il tempo in cui la religione divenne superstizione acuita dall’ignoranza, dal fanatismo, dalla tirannide dei poteri forti e dalla strumentalizzazione.


In una spirale di follia Chiesa e Corona, in combutta tra loro, suggellarono un patto di alleanza per esercitare un controllo paralizzante sulle masse analfabete e povere, su filosofi e scienziati; d'altronde ogni volta che l’orizzonte scientifico si dilatava, quello religioso si restringeva. Istituito nel 1184 da papa Lucio III con l’obiettivo di reprimere l’eresia e scovare gli eretici, l’apparato inquisitorio fu ritoccato da altri pontefici desiderosi di rimanere nel libro della storia della Chiesa per i loro alti meriti di difensori dell’ortodossia della fede. Nel 1215, nel corso del Concilio Lateranense, il pontefice Innocenzo III, sdoganò il collegio dell’Inquisizione come modello di giustizia eccelsa per scovare e annientare gli eretici. In quel solco si collocò anche Onorio III, mentre nel 1231 Gregorio IX nominò i primi inquisitori, prediligendo sia Francescani sia Domenicani, che non esitarono a macchiarsi di stragi scellerate in preda ad un’isteria religiosa sempre più contagiosa. Di certo il loro fondatore, deceduto a Bologna dodici anni prima, sarebbe rimasto sbigottito di fronte a tale degenerazione in nome della croce, acuita dai pontefici e dalle loro armi affilate e riposte nel fodero delle bolle. Il 1 novembre 1478 papa Sisto IV benedisse l’Inquisizione spagnola, ardentemente bramata dai sovrani Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, nel tentativo di scongiurare rivolte, reprimerle nel sangue e scatenare la pulizia etnica di Mori, Ebrei e conversos ossia di quanti erano stati costretti a convertirsi con una spada alla gola, per amore di un uomo o di una donna o per accedere per interesse ai prestigiosi incarichi presso la corte reale. Il sogno della cattolicissima Isabella di condurre la monarchia lungo i binari di un’unica religione si avverava. Con impeto drammatico per ragion di stato non solo la corona spagnola, ma anche quella francese ricorse alla Santa Inquisizione, cesellando l'arte del controllo delle menti.

Nel maggio del 1310 a Brindisi, nel tentativo di sterminare i Templari e di impossessarsi delle loro ricchezze, venne celebrato il processo ai cavalieri-monaci del Regno di Napoli accusati di centoventisette reati tra cui apostasia, idolatria, eresia e sodomia. Come sede distaccata del tribunale speciale venne scelto il convento adiacente all’area occupata allo stato attuale dalla chiesa dedicata a Santa Maria del Casale. Ad orchestrare l’interrogatorio farsa fu Carlo II d’Angiò, re di Napoli, in combutta con il cugino Filippo il Bello, re di Francia, entrambi avidi cacciatori di patrimoni e di tesori. Con falsi testimoni prezzolati e confessioni estorte con torture nel castello di Barletta ai malcapitati lì presenti, poiché gli altri, temendo il peggio, erano riusciti a rifugiarsi in luoghi sicuri, vennero esautorati di tutti i beni, mentre gli assenti, accusati di simili nefandezze, vennero condannati in contumacia.

Per seicento anni il terrificante congegno dell’Inquisizione funzionò alla perfezione, macchiandosi di delitti e misfatti, che alimentarono la “leggenda nera” degli inquisitori, che, in diversi casi, vennero persino proclamati santi. Il più delle volte la condanna era segnata soprattutto quando si incappava nelle maglie della famigerata macchina giudiziaria, poiché lo scopo principale del processo e della condanna a morte non era quello di salvare l’anima del reo, ma di lanciare un monito solenne allo scopo di terrorizzare il popolo e dominarlo. Con il tempo la condanna per eresia si tramutò in crimini contro lo Stato, coinvolgendo le alte sfere del potere politico alla ricerca di un sostegno ufficiale e persistente nel tempo; la tortura divenne uno strumento efficace volto ad eliminare personaggi ricchi e scomodi e a consolidare il potere politico e religioso.


I condannati, oltre ad essere bruciati vivi, annegati o immersi nell'olio o nella pece bollente, subivano l’esproprio dei beni, che rimpinguavano non solo le casse della macchina inquisitoria, ma anche i forzieri del tesoro reale spagnolo oltre alle tasche di delatori e inquisitori, familiari, vicari, commissari e ufficiali subalterni pronti a scagliarsi come lupi famelici alla gola di poveri agnelli innocenti scovati da torme di spie sguinzagliate per dare la caccia all'eretico. 

In un orizzonte infestato dal sospetto, i Domenicani, definiti dal volgo i cani del Signore, alimentarono un conflitto esasperato da chi spiava e denunciava per averne un tornaconto personale. Dall’ossessione medievale per le fiamme dell’Inferno, acuita dalla spada di Damocle del giudizio divino, si passò all’incubo delle torture più raffinate con l'obiettivo di adempiere il verdetto di uomini fanatici e quanto mai solerti a punire in modo esemplare i condannati. 
In virtù di questo repressivo strumento di controllo, sotto la pesante cappa della teologia, si affermò una teocrazia al servizio della monarchia. Sia uomini di Chiesa sia sovrani si esaltavano, quando respiravano l'acre odore di carne umana bruciata nella folle presunzione di estinguere ogni passione eretica.

In un clima di ignoranza e di pregiudizio la diffusione del sapere richiedeva un prezzo troppo alto da pagare in considerazione per di più della diffidenza della Chiesa verso la scienza. Per il rotto della cuffia se la scampò Matteo Tafuri (1492-1584) conosciuto come Matthaeus Soletanum ossia Matteo da Soleto, laureato in Medicina e Filosofia alla Sorbona di Parigi e cattedratico presso l’università di Salamanca. Il ritratto di colui che fu l’idolo dei grandi, la delizia dei letterati e lo spavento degli ignoranti, irradia sapienza ancora ai nostri giorni attraverso la tela inglobata nel 1580 sull’altare, intitolato alla Madonna del Rosario, ubicato lungo la navata sinistra della chiesa matrice di Soleto. Rispettato, onorato e temuto per i suoi poteri divinatori nella Soleto del Cinquecento il sapiente erudito venne considerato alla stregua di un mago dedito a malefici e a sortilegi sino al punto che fu costretto ad incidere sull’architrave della sua casa il motto HUMILE SO ET HUMILTÁ ME BASTA. DRAGON DIVENTARÒ SE ALCUN ME TASTA per tenere alla larga quanti lo molestassero. Esperto di occultismo e di esoterismo messer Matteo finì nei guai con l’accusa di governare sette spiriti rinchiusi in un cassetto. Per rivalità professionale venne deferito al Tribunale dell’Inquisizione, che, dopo averlo interrogato, per uno strano caso del destino, lo rilasciò con la consapevolezza che il sostrato culturale del Socrate di Soleto traeva origine da una terra popolata di macàre ossia di fini conoscitrici di arti occulte. A messer Matteo, reo di trasformare la pietra filosofale in oro, rimane intimamente connessa la leggenda della costruzione della guglia di Soleto in una sola notte, ricorrendo al sortilegio di evocare demoni e spettri dal loro regno oscuro. Ai primi raggi del sole tuttavia gli spiriti, intenti a scolpire ancora bifore, arabeschi, colonne tortili, cornici trilobate, mascheroni e grifoni, non riuscendo a fuggire, rimasero pietrificati con un ghigno apotropaico. Sulla base di fatti storici la guglia monumentale venne innalzata nel 1397 dal nobile Raimondello Del Balzo Orsini un secolo prima della nascita del sapiente soletano e il suo scopo oltre ad ostentare il potere della casata del glorioso Principato di Taranto era anche quello di fungere da torre di avvistamento al fine di scorgere il pericolo che si profilava dal mare.



Nel corso dei secoli in un clima di intolleranza religiosa le università da fucine del sapere si trasformarono in covo di eretici e molti ecclesiastici si impegnarono allo scopo di soffocare l’eresia intellettuale.

La difesa contro le nuove teorie fu affidata alle armi del rigore morale e della censura come nel caso di Galileo Galilei (1564-1642), costretto a confutare il dialogo sui massimi sistemi, del frate domenicano nolano Giordano Bruno (1548-1600), mandato al rogo per le sue idee rivoluzionarie, e dell’erudito di Taurisano, Giulio Cesare Vanini (1585-1629), dottore nella legge civile e canonica, ma soprattutto libero pensatore. Spirito inquieto Vanini, dopo aver abbandonato il saio carmelitano, si schierò apertamente contro il sapere teologico medievale e rinascimentale, precorrendo l’Illuminismo ed ergendosi a vessillo di un ateismo acuito dal sarcasmo e dall’irriverenza. A causa delle sue idee, considerate blasfeme il dissidente salentino entrò in conflitto con i pregiudizi dei poteri forti, incentrati su abuso di autorità, inganno e verità dogmatiche allo scopo di dominare e manipolare la mente della plebe ignorante, e, diciannove anni dopo il tragico falò di Giordano Bruno a Campo de’ Fiori a Roma, fu arso a Tolosa il 9 febbraio 1629 a soli trentaquattro anni.


Accusato di ateismo e bestemmie contro Dio, l’eretico Vanini, nato il 18 gennaio 1585 in uno sperduto casale di Terra d’Otranto, andò a morire allegramente come un filosofo, che oltre a identificare la divinità con la natura si rifiutava di credere nei miracoli. Senza pietà gli venne tagliata dapprima la lingua, poi venne strangolato e infine bruciato; per oltraggio le sue ceneri vennero disperse al vento, perché nessuno piangesse sulla sua tomba. Con questo macabro cerimoniale terminava drammaticamente la vita di un filosofo considerato sacrilego da un regime autoritario avallato da ecclesiastici, che, in un afflato mistico, confondevano la filosofia con l’eresia, sprofondando sempre più nell’abisso della perversità.




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