venerdì 18 marzo 2016

Le tavole di San Giuseppe

Al primo tepore di primavera al chiarore delle sacre fiammelle tornano in scena le tavole in onore di San Giuseppe. 


In sintonia con un incrollabile sentimento religioso si spalancano le case dei devoti, invase dall’olezzo di fritto e bollito sovrastato dal profumo inebriante di fresie e narcisi. Intorno a sontuosi banchetti esplode l'inno di lode per ringraziare il santo patriarca per i suoi prodigi o per rendere grazie alla divina provvidenza rivelatasi nei momenti più bui dell’esistenza. 


Nel solco della tradizione popolare fiorisce la festa religiosa, innestandosi come un virgulto sul tronco del mito pagano della rinascita della natura intimamente connesso al culto tesmoforico ellenico di Demetra e Kore. In un comprensorio circoscritto del Salento il rituale delle tavole imbandite nella ricorrenza della festa del padre putativo di Gesù trae linfa vitale dalla devozione, che, seppur intrisa di superstizione, affonda le radici in una fede maturata in un contesto sociale rurale caratterizzato in passato da un’economia di sussistenza.

Da secoli nell’entroterra idruntino, tra il 18 e il 19 marzo, si ripete l’antichissimo cerimoniale delle tavolate offerte a S. Giuseppe, traboccanti di alimenti confezionati a regola d’arte. In tempi di carestia, a cavallo dell’ equinozio di primavera, cibi crudi e cotti erano dispensati a poveri e malati nel solco della generosità dei monaci italo-greci pionieri di una consuetudine umanitaria intrisa di un cristianesimo primitivo. Ma non è escluso che l’atto di distribuire il cibo ai più bisognosi sia stato adottato per emulazione da nobili e feudatari disposti a concedere agli indigenti un pasto caldo nel tentativo di colmare il senso di vuoto delle loro pance, costrette al digiuno dalla povertà, e a corroborare le loro forze vitali messe a dura prova dal rigido inverno. Quella goccia nel mare degli stenti a volte poteva garantire la sopravvivenza a tanta gente sventurata, che doveva fare i conti con aspettative di vita di gran lunga inferiori rispetto a quelle attuali. Nell’immaginario collettivo di una società contadina era giunto il tempo di lasciarsi alle spalle il freddo e di accingersi a salutare l’arrivo della bella stagione coincidente con i primi tepori della primavera e con la maturazione e la spigolatura in estate delle bionde spighe di grano. Il toccante rito, sospeso tra sacro e profano, combaciava, infatti, con il risveglio della natura e con la celebrazione dei rituali di purificazione agraria.


Sulla scia di quella usanza caritatevole, perpetuata da un retaggio atavico di isolamento geografico, continuano a dischiudersi ai tiepidi raggi del sole le porte dei cuori e delle case in prospettiva di festeggiare il santo patrono della chiesa universale. Nel silenzio risuona la preghiera intorno alle tavole imbandite, allestite con sacrifici, rinunce e privazioni; nei tempi passati i devoti, infatti, pur di mantenere la promessa al santo, non esitavano persino ad andare ad elemosinare. Nel leccese, a Giurdignano, Uggiano La Chiesa, Casa Massella, Minervino e San Cassiano, nel rituale delle tavole si esaltano i simboli della religiosità popolare a suggello di un patto tacito e indissolubile che si rinnova di generazione in generazione. Fedeli a questa pratica votiva i devoti, per grazia richiesta o grazia ricevuta, continuano ad affidarsi al falegname di Nazareth. E, quando il silenzio si fa preghiera, le pietanze, cucinate al suon di un Pater, Ave e Gloria, vengono esposte nelle case pronte ad essere aperte indistintamente a tutti persino a forestieri e ad estranei. 

La comunità in festa si ritrova così riunita intorno al pane benedetto e alle pietanze crude o cotte: massa o vermiceddhi con ceci e cavoli, maccheroni conditi con il miele e cosparsi con la mollica di pane fritta al posto del formaggio, lampascioni, rape bollite, pesce fritto o stoccafisso in umido, ceci bolliti nella pignata, cavolfiori conditi con olio d’oliva, frittini con il miele e zeppole, destinate ad essere elargite nello spirito della ricorrenza all’insegna della condivisione. 

Dai tredici piatti tipici della tradizione contadina sono però rigorosamente banditi: carne, uova, latticini e formaggi come forma di rispetto dei precetti della quaresima. Sulle tavole degli offerenti accanto alle bottiglie di vino e di olio trionfano i pani devozionali a forma di ciambella guarniti con un finocchio e un’arancia e corredati da diversi emblemi attribuibili ai santi. 

Ad ogni banchetto ne siedono da un minimo di tre ad un massimo di tredici a partire da: Sant’Anna, San Gioacchino, Sant’Elisabetta, San Zaccaria, San Filippo, San Giovanni, Santa Maria Cleofe, Sant’Agnese, Santa Maria Maddalena, San Giuseppe D’Arimatea, Santa Marta, San Simone e San Tommaso, disposti a corona intorno alla Sacra Famiglia. L’atto dell’assaggio è sancito dal battito del bastone o dal tintinnio di una posata sull’orlo del bicchiere o del piatto da parte del personaggio che interpreta San Giuseppe. Quel che rimane di ogni pietanza viene portato a casa per essere distribuito a parenti e amici, ma anche ai nemici allo scopo di risanare contrasti e dissapori. 

La scelta dei piatti sembrerebbe casuale se non si cogliesse il sottile collegamento con alcuni episodi della vita del santo, il cui simulacro troneggia sulla tavola, allestita come un altare, attorniato da fiori variopinti e ceri. La verga fiorita, elemento iconografico relativo alla scelta del santo quale sposo dalla vergine Maria, domina il banchetto. Un banchetto intriso di fede, speranza e carità che, nella prospettiva ecumenica di un grande pontefice, Giovanni Paolo II, rappresentavano le tre stelle che rifulgono nel cielo della vita spirituale allo scopo di guidare il credente verso Dio. 
Questo fenomeno straordinario, seppur circoscritto ad alcune aree del Salento, ha affascinato, in vari tempi e in vari modi, le alte sfere ecclesiastiche, che, seppur non riuscendo a carpirne l’essenza, lo hanno avallato al di là delle contaminazioni ibride. Eppure l’indubbia matrice culturale e pittoresca non deve indurre in errore né snaturare un arcaico cerimoniale pagano che ormai si fonde e si confonde con il sacro. "Si trovano presso il popolo espressioni particolari della ricerca di Dio e della fede, per lungo tempo considerate meno pure, talvolta disprezzate. Queste espressioni formano oggi un po' dappertutto l'oggetto di una riscoperta." Così un altro papa, Paolo VI, nell’esortazione apostolica “Evangelii Nuntiandi”, promulgata nel 1975, nell’intento di ribadire l’impegno da parte della Chiesa di annunciare il Vangelo agli uomini, esortava all’accettazione della religiosità popolare. Il pontefice, cogliendo la manifestazione autentica dalla fede professata in modo del tutto particolare, la definiva "pietà popolare" cioè del popolo, perché scaturita dalla fede dei semplici e dei poveri, decisamente lontana dall’indottrinamento dei teologi particolarmente avversi a quel sincretismo religioso, residuo di teologia medievale, impregnato di magico e di superstizioso. 


Il rituale delle tavole imbandite nella ricorrenza della festa di San Giuseppe potrebbe rientrare proprio in questa tipologia in quanto erede di una devozione ingenua, ma autentica, intimamente legata ad un contesto sociale-religioso scandito dalla quotidianità e dal duro lavoro dei campi. Comportamenti, pratiche, fioretti, regole e osservanze particolari connoterebbero da sempre l’animo religioso salentino traboccante di una religiosità primitiva anche se a tratti rischia di scivolare nella sfera folcloristica. Nonostante la superstizione è proprio nella genuinità della devozione, alimentata dalla fede, che si rigenera il valore intrinseco del sacro per nulla intimorito dal profano come se entrambi fossero i due volti di una stessa medaglia.


Un tributo di venerazione talora spettacolare viene reso a San Giuseppe non solo nel leccese, ma anche nel brindisino e nel tarantino. Ad Erchie, Torre Santa Susanna, Avetrana, Sava, Monteparano, Lizzano e Fragagnano da tempo immemorabile si ripete il rito delle tavolate, ossia dei pranzi offerti dalle famiglie in segno di devozione. A San Marzano di S. Giuseppe, capitale arbereshe italiana, la cerimonia delle mattre si sposa con la processione delle fascine destinate ad essere arse da un fuoco purificatore. Essa trae origini dal ricordo del violento nubifragio che nel 1886 devastò vigneti, frutteti e uliveti. In quella circostanza S. Giuseppe venne invocato per scongiurare una completa distruzione e gli abitanti in segno di riconoscenza lo proclamarono protettore del paese. Sulla scia di quel retaggio atavico, puntualmente ogni anno nella serata del 18 marzo, migliaia di persone scortano a piedi per diversi chilometri una lunga fila di carretti stracolmi di fastelli e di tralci di potatura di vite, che vengono trainati da cavalli bardati a festa pronti ad inginocchiarsi dinanzi al simulacro del santo. La legna che affannosamente trascinano è destinata ad alimentare il grande fuoco ossia il falò monumentale destinato ad ardere sino all’alba.

Con impeto infinito i devoti festeggiano il santo patriarca, che, nonostante l’età avanzata, si assunse l’onere di essere padre, scegliendo di vivere una vita lontana dai riflettori, all’ombra di un figlio ingombrante. Ultimo dei giusti dell’Antico Testamento, San Giuseppe, nell’immaginario collettivo interpreta il disegno di amore del padre verso il figlio, abbracciando il mistero dell’incarnazione del Verbo e accettando di vivere un matrimonio virginale. Per queste prerogative Dio lo volle investire del ruolo di custode della prole, protettore dei moribondi e fautore del soccorso divino. Quel soccorso che si rinnova attraverso la messa in scena delle tavole imbandite da mettere in relazione con il simbolismo terrestre, culminante con il risveglio della natura dopo un lungo letargo, e con il simbolismo celeste, esemplificato dal cammino fittizio del sole in cielo accompagnato dal soffio primaverile che infonde allo spirito nuova vita. 


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