martedì 22 marzo 2016

Nel crepuscolo degli dei

Con una brusca virata la cultura classica, impregnata di paganesimo, entrò in rotta di collisione con il cristianesimo sino a disintegrarsi. In uno scontro tra titani, santi e martiri cristiani, spodestarono dall’olimpo e dal pantheon divinità celesti e ctonie, lari e numi tutelari, esiliandoli, dopo averne prosciugato la linfa vitale, nell’oscuro tartaro, da cui non vi avrebbero fatto mai più ritorno. 

Nella lotta per la sopravvivenza i culti pagani attinsero alla dottrina cristiana di natura soteriologica al fine di prolungare la loro agonia, ma non sono escluse contaminazioni reciproche. Dopo il Concilio di Efeso del 431 d.C. la teologia mariana non esitò a chiamare in causa il culto primordiale della Dea Madre, che, seppur vergine, partorì un figlio, prologo al dogma di Maria vergine e madre sancito nel 649 d.C. dal Concilio Laterano. In prospettiva di diffondere il culto della Madonna, purtroppo labile nelle Scritture, si ricorse anche al parallelismo con la dea egiziana Iside, la signora dei diecimila nomi, la quale, per amore vinse la morte, riportando in vita con la magia il suo sposo Osiride. Entrambe iconograficamente venivano rappresentate con un bambino in braccio, Horus nel caso di Iside, Gesù in quello di Maria di Nazareth investita del ruolo di tenera madre incline ad abbracciare e a proteggere sotto il manto celeste tutti i suoi figli. Iside, dea lunare e delle maree, nonché protettrice dei naviganti, ispirò il titolo di Maria stella maris tramandato dalle litanie. 




Nel crepuscolo degli dei i templi, dedicati alla dea egiziana della notte, raffigurata con simulacri neri rievocanti le tenebre, vennero convertiti al culto della Beata Vergine salutata come Maria Theotokos. La madre di Dio, secondo Sant’Ambrogio, venne fecondata attraverso un messaggio mistico soffiatole all’orecchio da un angelo, preludio al mito della sacra verginità di Maria. Con afflato mistico i Padri della Chiesa riportarono in auge la reminiscenza della sposa nigra sed formosa del “Cantico dei Cantici”.


Lo stesso tratto distintivo ritornava nelle tavole delle cosiddette madonne nere, dipinte da San Luca, e nei simulacri, intagliati in legno di cedro allo scopo di essere venerati e traslati dai devoti in processione; a quel filone si rifanno tuttora le effigi della Madonna Lauretana e di Guadalupe venerate in tutto il mondo.







Nell’antico Egitto il simulacro di Iside, dea della fertilità e della maternità, veniva scortato per le strade da sacerdotesse, che indossavano abiti bianchi, recando corone di fiori e lampade votive. In onore della regina del cielo, che indicava il cammino come una stella, dopo il tramonto, nelle case e sulle barche venivano accese candele votive. In antitesi al paganesimo, nel libro visionario dell’Apocalisse di San Giovanni Apostolo, comparve una donna “vestita di sole, con la luna sotto i suoi piedi e sul capo una corona di dodici stelle”. La fisionomia affondava le radici nel libro della Genesi in cui veniva descritta una donna nell’atto di schiacciare la testa al serpente, interpretato dal cristianesimo come il simbolo del male e della tentazione, poiché indusse al peccato originale Adamo ed Eva. La Chiesa, sotto la coltre della teologia, con l’obiettivo di suffragare la costruzione intellettuale della verginità di Maria, estrapolò dal Libro del profeta Isaia un ulteriore brano: <<la vergine concepirà e partorirà un figlio>>, interpretando la parola ebraica “giovane donna” con “vergine”; in questo compromesso si annidava il proposito di attribuire purezza e innocenza a Maria vergine e nello stesso tempo madre in grado di compiere miracoli. 


Il concetto per quanto astratto creava l’humus per il concepimento di Maria senza il peccato originale. Nel  XVI secolo, allo scopo di evidenziarne l’aspetto, la Vergine, effigiata con il crescente lunare capovolto (antico simbolo di castità), venne investita del ruolo salvifico di “nuova Eva” ossia di colei che, portando in grembo il Redentore, era stata predestinata a riparare al peccato compiuto dalla prima Eva, cacciata da Dio dal paradiso terrestre insieme ad Adamo, dopo l'inganno ordito dal serpente parlante. L’ortodossia del tema venne sancita da numerose ratifiche papali sino a quando nel 1854 con Pio IX venne promulgato il dogma dell’Immacolata Concezione. 




Nelle religioni politeistiche un confronto parallelo tra donna e serpente poteva essere istituito con il frammento orfico incentrato sulla celebrazione dell’accoppiamento della Dea Madre con il serpente Ofion allegoria del cosmo e del ciclo della vita; in virtù del loro congiungimento sarebbe stato generato l’uovo cosmico destinato a schiudersi, al soffio di un vento tiepido, durante l’equinozio di primavera. In coincidenza di quell’equinozio, i Vangeli, non a caso, collocarono l’episodio della visita a Maria da parte dell’arcangelo Gabriele allo scopo di annunciare la fecondazione divina; la preziosa funzione di quel grembo, dove la divinità si era fatta carne, venne affidato più tardi alle Litanie Lauretane (vas spirituale, vas honorabile, vas insigne devotionis). Sin da quell’annuncio angelico la vergine di Nazareth, concepita senza peccato, era designata a divenire sposa dello Spirito Santo ma anche di S. Giuseppe, madre dolorosa, ausiliatrice, misericordiosa, protettrice e vittoriosa. Oltre a ciò, per aver portato nel suo grembo Gesù Cristo, era deputata a divenire Chiesa vivente. La sua effigie, considerata miracolosa alla stregua di una nike alata di stampo greco e dell’egiziana Iside dalle braccia alate, rifulse su vessilli e labari di confraternite ed eserciti come quello della Sacra Lega, che, il 7 ottobre del 1571, sbaragliò i Turchi a Lepanto, arginando il dilagare dell’islamismo e soffocando le mire espansionistiche ottomane nel Mediterraneo. 

Fu Pio V, dopo aver errato a piedi nudi per le strade di Roma, supplicando da penitente l’intervento divino per il buon esito politico e militare dell’impresa, ad aggregare la coalizione cristiana contro il comune nemico, ponendola sotto l’egida del gonfalone pontificio; sullo sfondo rosso del vessillo, benedetto dal papa e consegnato al comandante delle truppe pontificie Marcantonio Colonna, vi era raffigurato il Crocefisso tra gli apostoli Pietro e Paolo insieme al motto costantiniano in hoc signo vinces. Prima dello scontro, tuttavia, le truppe si votarono al simulacro della Madonna, recante l’incipit dell’antifona Sancta Maria succurre miseris, donato al comandante supremo don Juan, figlio naturale di Carlo V e fratellastro di Filippo II re di Spagna, dal proprio confessore: Giovanni Battista di Guardiagrele. 
I due schieramenti, dopo aver perlustrato le coste e pianificato la strategia, si scontrarono di fronte al porto di Patrasso in Grecia, dove il mare si tinse di sangue. Tra un groviglio di imbarcazioni sventolavano i labari della Madonna e del Crocefisso, issati rispettivamente sul pennone della nave ammiraglia (Real) e sull’albero maestro della nave pontificia (Capitanata), mentre il vessillo verde del profeta Maometto, inneggiante al nome di Allah, era esposto sulla nave ammiraglia ottomana (Sultana), comandata dall’ammiraglio musulmano Mehemet Ali Pascià. 

Nel furore delle operazioni belliche ognuno cercava di abbattere lo stendardo dell’armata nemica per fiaccare gli animi. Nel disperato tentativo di sconfiggere il terrore dei turchi, abili impalatori  e tagliatori di teste, soldati, ufficiali, cappellani, archibugieri e vogatori cristiani con animo affranto recitavano incessantemente il rosario. In uno scenario apocalittico, nonostante l’inferiorità numerica e la defezione della Francia, vincolata da rapporti militari e commerciali con diversi circoli islamici, il fronte comune cristiano prevalse contro il minaccioso pericolo; nel volgere di cinque ore, la flotta dell’impero ottomano, che minacciava Cipro e gli interessi spagnoli e veneziani nel Levante oltre alla civiltà cristiana, venne sbaragliata. 



Il papa domenicano, nelle forme turbinanti di un sogno, mentre ancora infuriava la battaglia, ebbe in San Pietro in Vaticano la visione del trionfo della flotta federata della Santa Lega, attribuendo l’evento miracoloso all’intercessione della Vergine e alla recita della corona del rosario; da quel momento in poi l’elogio auxilium cristianorum venne introdotto nelle Litanie Lauretane. La notte del 22 ottobre, quando i messaggeri del principe Colonna giunsero a Roma per annunciare ufficialmente l’epilogo, si rese grazie alla Madonna, che aveva concesso la vittoria, intonando il Te Deum e recitando il santo rosario. Nel frattempo quindicimila prigionieri cristiani erano stati liberati dalla schiavitù, e, una volta sbarcati a Porto Recanati, si inerpicarono in fila sino al santuario di Loreto per deporre le catene, che li avevano tenuti incatenati ai remi delle galee turche. Ceppi e catene in ferro, per grazia ricevuta, vennero liquefatti allo scopo di realizzare le cancellate (andate fuse quasi dopo due secoli) dei dodici altari della navata centrale della basilica e i quattro cancelli della Santa Casa ancora in situ. Il Senato della Repubblica di Venezia, memore di quel successo, che, sin da subito, era apparso come un prodigio divino, coniò il celebre motto: non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit. 


Sull’onda del clamoroso trionfo della cristianità, in preda a pura follia religiosa, divamparono fremiti di insofferenza contro eretici ed infedeli, che assunsero toni aspri di crociata sino a sfociare, l’anno dopo a Parigi, nel massacro degli ugonotti. La notte di S. Bartolomeo, a cavallo tra il 23 e il 24 agosto 1572, la popolazione francese di fede cattolica, aizzata dall’odio dei cappuccini e incoraggiata dai preti, partecipò allo sterminio di migliaia di protestanti, macchiandosi di sangue innocente, che aprì un baratro tra le due confessioni religiose. San Pio V, autentico papa della Controriforma, era scomparso qualche mese prima e anche se non fu l’esecutore materiale di quella carneficina, ne fu l’ispiratore. 



Il suo successore, Gregorio XIII, salito al soglio di Pietro dopo un rapido conclave, si prodigò ad assolvere la Francia Cattolica da quell’atroce misfatto con l’indizione di un Giubileo. Qualche tempo dopo, lo stesso papa, artefice di diversi cambiamenti in seno alla Chiesa a partire dal calendario, riportò in auge l’eco della battaglia di Lepanto; nel solco dello scalpore della vittoria, impetrata attraverso la preghiera mariana recitata dalle confraternite del Rosario, attribuì a Santa Maria delle Vittorie sull’Islam il titolo di Beata Vergine del Rosario. In sua devozione venne caldeggiata la recita del salterio angelico ritenuta l’orazione più potente per combattere le eresie.



Sull'onda dell'impatto emotivo fastose composizioni artistiche, dedicate a Maria, rosa senza spine, e ai misteri del rosario rifulsero in tutto il loro splendore in luoghi di culto cristiani ad imperitura memoria dello scontro navale, che cambiò le sorti della storia europea. Cartigli, statue e pale di altare pullularono nelle chiese, alimentando la devozione popolare sino al punto che l’11 aprile 1573 Gregorio XIII, attraverso la bolla Monet Apostolus, stabilì l’istituzione di una festa solenne in onore della Madonna del Rosario da celebrarsi ogni prima domenica di ottobre in tutte le chiese che fossero dotate di altare o di cappella dedicata alla Vergine del Rosario. In una gara di emulazione reciproca i protagonisti del fatto d’arme, i loro discendenti e gli esponenti più illustri delle nobili casate di Terra d’Otranto, che si armarono contro i turchi con le proprie schiere al seguito, commissionarono ad artisti del calibro di Gian Domenico Catalano, Donato Antonio D’Orlando, Lavinio Zappa e tanti altri, dipinti nei quali venivano ritratti in assetto di guerra o tra la schiera dei personaggi considerati paladini della cristianità; con questo artificio artistico il più delle volte esprimevano il proposito di glorificazione personale e dinastica nonché di legittimazione del potere.

Nella terra fortificata di Muro Leccese un lavoratore di umili origini consegnò il ricordo di quel drammatico evento, vissuto in prima persona o raccontato da qualche avo, ad una rappresentazione graffita sui muri del frantoio annesso al Palazzo dei principi Protonobilissimo. Nella mente atterrita di quell’uomo, implicato molto probabilmente nella macina delle olive, dominava la scena una città fortificata con due torri angolari munite di cannoni; in cima ad una di esse sventolava una bandiera con il rimando esplicito al porto Messina, da cui il 5 ottobre 1571 salpò la flotta della Lega Santa per sferrare l’attacco contro l’armata turca.


Nella composizione una miriade di navi da combattimento solcava le onde del mare mentre il sole, la luna e le stelle segnavano il trascorrere del tempo all’ombra di un cherubino del giudizio e della morte armata di falce. Al di là delle interpretazioni divergenti, in quei graffiti, venne racchiuso un episodio realmente accaduto, senza tralasciare l’assedio di Otranto del 1480, che vide protagonisti i turchi assetati di sangue.


Il 16 settembre 1579 nel convento domenicano di Gallipoli venne fondata la Confraternita del Santissimo Rosario con la missione di diffondere il culto della Madonna invocata dalle milizie cristiane. Sulla scia del ricordo mai sopito di Lepanto furono previsti contributi di un certo rilievo nella splendida chiesa annessa al complesso monastico di pertinenza all’Ordine dei Padri Predicatori, a partire dal sontuoso altare intitolato al loro santo fondatore.


L’apparato monumentale, intagliato nel legno e dipinto in oro zecchino, venne adornato su di un lato con il tondo recante il ritratto di mons. Alfonso de Herrera (monaco agostiniano, cappellano delle milizie cristiane della Santa Lega nonché vescovo di Gallipoli dal 1576 al 1585), e, sull’altro, con il tondo recante l’effigie del principe don Giovanni d’Austria, artefice del trionfo della croce sulla mezzaluna islamica.





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