Agli albori del mito fluttuava tra le acque una terra costellata di foreste popolate di alberi, che facevano ombra ad un scrigno di villaggi. Per la sua posizione strategica, che la vedeva circondata da tutti i lati dal mare, i coloni greci alla ricerca di terreni fertili da colonizzare, sin dall’VIII sec. a.C., la denominarono Messapia e i popoli che vi si insediarono di genia cretese, illirica e locrese, poiché avevano suggellato tra loro un patto d’amicizia in mare aperto (in salo), vennero etichettati dalle fonti letterarie di età romana come Sallentini.
Ma Messapia, oltre ad essere la terra tra i mari Ionio e Adriatico, era
anche la “terra di mezzo” tra il territorio controllato dagli Iapigi e il mondo
ellenico. Essa era suddivisa ab origine in Calabria e in Sallentina e coloro che
l’abitavano, i Calabri e i Sallentini, erano i discendenti delle bellicose
tribù di stirpe illirica emigrate, tre generazioni prima della guerra di Troia,
dai Balcani.
Sin dall’età
del Bronzo la penisola del sale si lasciò sedurre dai flussi e dagli influssi
egeo-balcanici, che si cementarono con l’approdo delle zattere dei bellicosi Iapigi
partiti dalla riva opposta dell’Adriatico. L’esodo, nell’età del Ferro, riversò,
a più ondate, nei villaggi dell’entroterra, eserciti di profughi, depositari
dei segreti metallurgici per forgiare armi e attrezzi agricoli di vitale
importanza per voltare pagina.
Ricorrendo
ad inauditi atti di violenza, e, in qualche caso, offrendo doni e stringendo
alleanze si amalgamarono con gli indigeni con i quali presentavano affinità
linguistiche rimandabili ad un comune ceppo tribale. Soluzioni tecnologiche evolute
vennero adottate nel settore della produzione ceramica, che iniziò ad assumere
motivi geometrici, traendo ispirazione dal patrimonio
decorativo, sfoggiato sui manufatti della valle del Devoll in Albania e su
quelli provenienti dalle isole del mare Egeo.
Assurto
al rango di interlocutore privilegiato con il quale smistare gli scambi commerciali tra Oriente e Occidente, il
Salento, fece tesoro dell’esodo illirico e del naufragio cretese narrato nel V sec. a.C. nel Libro delle Storie di Erodoto. Nel racconto dello
storico greco le imbarcazioni dei Cretesi, mentre facevano ritorno dall’assedio della roccaforte di Camico per vendicare
il re Minosse, trucidato nella reggia di Cocalo, vennero scaraventate dai marosi sulle candide scogliere
del promontorio iapigio, e i superstiti, sopraffatti dagli eventi, decisero
di insediarsi nel luogo, dove erano stati fatti naufragare dal fato, fondando
la città madre di Hyrie,
corrispondente all’antica Vereto; da qui si diramarono, trasformandosi
da isolani in continentali e da Cretesi in Iapigi Messapi.
In questa spirale si anniderebbe il nucleo
primordiale della fondazione di ulteriori insediamenti di origine cretese, alcuni
dei quali vanterebbero come fondatore, secondo la
versione riportata nelle Antichità Romane
da Varrone, Idomeneo di Litto; il sovrano cretese a capo di esuli cretesi, illirici
e locresi, dopo diverse traversie, riuscì ad approdare lungo le sponde del
litorale salentino sulla scia del racconto epico di Enea in fuga da Troia.
Al di là delle versioni contrastanti, intrise di
mito, storia e leggenda e incentrate sulla commistione tra genti indigene,
illiriche, locresi e cretesi, che, in vari tempi e vari modi, contribuirono a
comporre le tessere del mosaico delle origini di una
delle civiltà indigene più rappresentative nel panorama italico, la
documentazione archeologica, come una cartina al tornasole, ci restituisce l’immagine
di un Salento deputato, sin dall’antichità, ad accogliere e a svolgere il ruolo
di teatro di scambi commerciali e culturali tra i popoli, che si affacciavano
lungo il bacino del Mediterraneo. A partire da età micenea si intensificarono i
rapporti sino a consentire non solo l’esplorazione, ma anche l’attivazione di
empori sulle coste da cui venivano veicolati verso l’entroterra vasellame e
prodotti trasbordati dai pionieri dei mercati, che, come gli eroi omerici, sfidavano
il mare. Seguendo le rotte della memoria e il fulgore delle costellazioni questi
arditi navigatori si affidavano ad un vento pronto a gonfiare le vele delle
loro imbarcazioni, ma anche a squarciarle, fino a farli naufragare. Animati da
spirito di intraprendenza e da avidità di guadagni salpavano da Corinto o dalle
isole di Itaca o di Corfù, e, dopo aver solcato lo Ionio, puntavano verso il
promontorio di Santa Maria di Leuca, oppure, dopo aver risalito il tratto della
costa albanese, racchiuso tra Valona e Durazzo, si dirigevano verso Brindisi,
Rocavecchia e Otranto.
Dalla prima metà dell’VIII sec. a.C. i
traffici commerciali sul Canale d’Otranto proliferarono, dilagando a macchia
d’olio sin nell’entroterra. Nella seconda metà dello stesso secolo, dopo una
lunga fioritura, giunsero a maturazione i frutti del riscatto economico e
culturale iapigio, che portarono ad un incremento demografico, sfociato nella
nascita come funghi di villaggi a capanne sia sul litorale che nell’entroterra,
preludio alla fondazione degli insediamenti messapici, protetti da una poderosa
cinta muraria in grossi blocchi squadrati, secondo i parametri greci, e
collegati con porti e approdi incastonati in promontori con valenza sacrale.
Come un mosaico si componeva il quadro
insediativo della Messapia, delimitata a settentrione da Gnathia (Egnazia) e a
meridione dall’Akra Iapyghia corrispondente
al Capo di Leuca.
Nel VI sec. a.C. il soffio dell’età arcaica
contribuì alla costruzione di case con alzato in pietra o in mattoni crudi e
ricoperte da tegole, mentre cuoceva a fuoco lento il contrasto tra il mondo
coloniale greco e quello messapico stregato dal fascino culturale ed artistico della
colonia laconica di Taras (Taranto),
destinata, secondo la profezia, a divenire flagello per gli Iapigi.
Nel volger di pochi lustri iniziarono ad essere
frequentati non solo i luoghi sacri indigeni, delimitati da cippi, ai piedi dei
quali, come rito propiziatorio, venivano versate libagioni agli dei, ma anche i
santuari di stampo magno greco come quello di Monte Papalucio ad Orra (Oria),
ospitato in un antro e rinomato per la ricchezza dei depositi votivi offerti
alle divinità tesmoforiche della fecondità Demetra
e Kore.
Nei
recinti sacri, come quello di Ozan
(Ugento), al cospetto del simulacro del dio fulminatore, veniva recitato il
mantra Klaohi Zis (ascolta o Zeus) affidato
alle ali del vento e a nugoli di fumo delle vittime sacrificali, che salivano sino al cielo.
Per eternare
il ricordo le ceneri dei defunti non vennero più disperse al vento, ma, dopo il corteo funebre, le spoglie mortali, incominciarono
ad essere inumate in tombe a fossa o a camera insieme ad un corredo più o meno
ricco in base al rango sociale.
Nelle tombe maschili venivano riposti gli oggetti, attinenti alla sfera del banchetto, della palestra e della guerra, mentre in quelle femminili oltre a terrecotte figurate, fibule, spilloni e gioielli, dominavano le immancabili trozzelle (una sorta di anfora per acqua dotata di anse sormontate da quattro o più rotelle) divenute simbolo della civiltà messapica, che germogliò nel mare del mito e conficcò saldamente le sue radici nella terra tra le acque.
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