mercoledì 17 febbraio 2016

Salentum a salo. La magia della terra del sale


Tana, regina di tutti gli incantesimi, dagli abissi del tempo sale e senza pudore scioglie i veli del chitone per mettere a nudo le meraviglie del Salento circondato da ogni parte dal mare. Seppur condannata ad assumere le sembianze di una statua di sale, la dea della luce lunare e delle foreste, con nostalgia rimane aggrappata al ricordo della sua amata terra. Una terra che, non di rado, appare pietrificata, quando lame di luce trafiggono il cielo velato da nubi, minacciando violenti scrosci di pioggia. Al primo presagio di temporale, sopraffatti dalla canicola estiva, gli alberi implorano Giove Pluvio affinché faccia sgorgare copiose lacrime per ristorare il terreno assetato, mentre il vento ribelle, che non smette di martellare la costa, solleva mareggiate, risolute a  schiaffeggiare dune e scogli, che, da tempo immemorabile, hanno deposto gli scudi. Lungo il litorale, dalla sabbia, triturata come cipria, si sprigionano bagliori, simili a polvere di stelle, destinati a dissolversi tra spruzzi di salsedine, mentre nella campagna inizia ad espandersi un profumo intenso di erbe aromatiche. 


Sul calar della sera, ritorna la quiete dopo la tempesta, e, sullo sfondo di un tramonto rosso purpureo, la luna spunta oltre l’orizzonte per rischiarare il buio della notte. Nel volgere di poche ore, dalla scogliera della Palascia, il punto geografico più ad oriente d’Italia, il carro del sole si inerpica in cielo per salutare, in anteprima, l’alba di un nuovo giorno.



È questa la magia infinita del Salento, dove, tra forti contrasti e mille contraddizioni, tutto sembra parlare l’idioma del sole, del cielo, del mare e del vento nel fremito della natura e nel magma incandescente di storia, leggenda, architettura, archeologia ed arte. Il richiamo della “terra di mezzo” è irresistibile quasi come il canto delle sirene di Ulisse. Se amate paesaggi, monumenti e luoghi che scaldano il cuore questo è il viaggio per andare alla scoperta di scenari rilassanti in grado di fermare le lancette dell’orologio. 


Con impeto infinito, a stretto contatto con la bellezza ineffabile che è lo spazio dello spirito, si varca un portale dimensionale, dove farsi accarezzare dal vento e farsi cullare dal mare, sprofondando in una dimensione illusoria. Sulla riva le onde sussurrano parole incomprensibili destinate a dissolversi, mentre prepotentemente ritornano a galla ricordi svaniti nei recessi della memoria ridestati all’improvviso dal suono ipnotico dell’acqua della terra del sale. Non a caso il toponimo Salento è associato al sale. Sulla scia di Varrone “Salentum a salo dicto” in memoria di un’antica amicizia, stipulata in mare, tra i popoli (Cretesi, Illirici e Locresi) di etnia diversa che vi si insediarono. Se si vuol dar credito, invece, alla leggenda, l’etimologia del nome, potrebbe derivare sia dai coloni cretesi, provenienti da Salenzia e per questo denominati Salenti, sia dal mitico re Salo.

Scrutando nella valva di una conchiglia si torna indietro nel tempo. Dalle mutazioni sequenziali  delle umane vicende e dalla bellezza dei paesaggi trae linfa vitale il fascino delle splendide città sul mare di: Otranto e Gallipoli, prese d’assalto, per la loro posizione strategica, in passato da pirati turchi e saraceni e, oggi, da turisti cosmopoliti in cerca di emozioni. 




La seduzione della città dei martiri, schierata di fronte al mare Adriatico e aggrappata tenacemente alla “valle delle memorie” solcata dall’Idro, si sprigiona nel dedalo del borgo pittoresco, che si aggroviglia intorno alla cattedrale a un tiro di schioppo dal poderoso castello aragonese implementato dai sovrani spagnoli dopo il terrificante sacco turco dell'agosto del 1480.




















Per proteggere Gallipoli, snodo di fiorenti traffici mercantili, che si irradiavano dal suo porto sul mare Jonio, oltre al potenziamento del castello angioino si ricorse ad un ingegnoso apparato difensivo costituito da una poderosa cinta muraria intervallata da torri e bastioni. 


Nonostante le avversità la “città bella” molte volte cadde e molte volte si risollevò, rintanandosi nel labirinto di vie tortuose del centro storico, che le fanno assumere l’aspetto di casale medievale immerso nell’atmosfera di una casbah islamica. Smaniosa di proiettarsi verso il futuro, la perla dello Jonio, borgo avito di generazioni di pescatori che non rinnegano le loro origini e il sentimento d’amore nei confronti del loro mare, ha deciso di cambiare concezione della vita, puntando  non solo sulle sue bellezze artistiche, ricevute in eredità dal passato, ma anche ai suoi luoghi di ritrovo moderni, dove il divertimento a tutte le stagioni è sempre assicurato.



Nel Salento, senza ombra di dubbio, la geografia e la geomorfologia, congiunta a mare, stagni e acquitrini, plasmarono la storia segnata altresì da una sommatoria di incontri. A segnare la sorte dei centri salentini, in primis, fu la posizione sul mare così come avvenne per Brindisi, eletta a sentinella sull’Adriatico prima dai Messapi e poi dai Romani, che, nel 244 a.C., vi dedussero la colonia latina di Brundisium destinata a divenire testa di ponte verso l’Oriente. 



I fasti di Roma antica sono rievocati dalle mastodontiche colonne, svettanti di fronte al lungomare (considerate erroneamente come terminali della via Appia, ma in realtà rientranti nel sistema di segnalazione del porto antico); 






dai reperti archeologici custoditi nelle sale del Museo F. Ribezzo; dal materiale fittile delle officine di Apani, Giancola, Marmorelle e La Rosa, dove si realizzavano anfore destinate al trasporto di vino e olio d’oliva; 


oltre che dalle sculture bronzee provenienti dal naufragio tardo antico di Punta del Serrone. 

Per volere del fato la vita del capoluogo messapico rimase ancorata al suo porto. Dal primitivo scalo a testa di cervo di memoria messapica, implementato da Roma, vennero spiegate al vento le vele delle navi dei crociati dirette verso la Terra Santa per liberare il Santo Sepolcro. 
Quelle stesse banchine, nel secolo scorso, furono predisposte, per qualche tempo, per l’imbarco della Valigia delle Indie.



Una diversa inclinazione connotò Lecce, conosciuta come la “Firenze del Sud” o “l’Atene delle Puglie”, forgiata come una “città-chiesa” in linea con un ambizioso progetto stabilito sin dai tempi della Controriforma.


Essa fu poco incline a guerra e a commercio, ma molto propensa al lusso, al fascino della bellezza, alla seduzione dell’eleganza e al senso del sacro instillato dai suoi potenti vescovi sostenuti da una folta schiera di chierici. A connotare il volto del capoluogo salentino toccò in sorte alle grandi glorie edificatorie del passato, esemplificate da chiese e palazzi insieme ai monumenti di quella che fu l’antica colonia romana di Lupiae pianificata secondo i modelli classici dell'articolazione delle città romane, che, per gemmazione assumevano l'aspetto di piccole copie di Roma.






Secondo la leggenda Lupiae venne fondata dal sovrano salentino Malennio, figlio del mitico re Salo. Tra I sec. a.C. e I sec. d.C. venne nobilitata dal grande imperatore Augusto, che la dotò di superbi edifici di spettacolo, tra cui: il teatro e l'anfiteatro. L'interessamento di un altro imperatore, Marco Aurelio, determinò il cambiamento di status del centro, che, da municipium divenne colonia, indizio del conseguimento di un ruolo preminente almeno nello scacchiere sub regionale. L’arco cronologico compreso tra il regno di Nerva e quello di Commodo sancì per Lupiae un momento di rilancio, che, a fasi alterne, si protrasse sino ad età adrianea, quando, oltre ad interventi in summa cavea all'anfiteatro, si procedette al potenziamento del porto di S. Cataldo, che fungeva da sbocco a mare per Lupiae.

















Eppure la suggestione di Lecce non si limita alle preesistenze antiche. Il suo fiore all’occhiello è rappresentato dai capolavori barocchi concepiti per esaltare la fede, ma anche per lasciare di stucco i posteri con merletti e ricami di pietra consegnati all'immortalità. Il pensiero vola alla stupefacente basilica di Santa Croce commissionata dai Celestini, dopo la battaglia di Lepanto, per celebrare il trionfo della cristianità sulle forze dell'Islam. Occorsero due secoli alle maestranze per erigerla e per renderla così incantevole fino ad infondere un'anima alla pietra.



Un altro sublime gioiello si cela dietro alla magnifica quinta scenografica di Piazza Duomo considerata tra le più belle piazze d’Italia. Entrando in questa piazza chiusa, sulla quale trovarono la loro degna ribalta in tempi diversi il Duomo, il Campanile, il Palazzo Vescovile e il Seminario, si viene sommersi da una luce che abbaglia sino a stordire.



All'ombra del campanile si torna indietro con l'orologio del tempo sino a sentire l'eco del Foro romano, ombelico della vita politica, culturale, economica, giuridica e sociale dell'antica Lupiae. Proprio da questo contesto provengono elementi architettonici di un edificio templare dedicato, probabilmente, alla triade capitolina, ossia agli dei: Giove, Giunone e Minerva. Nel tentativo di estirpare il paganesimo furono le statue di questi dei pagani ad essere ridotte in mille pezzi dal patrizio Oronzo impegnato a convertire al cristianesimo la popolazione pagana sino al punto di pagare la sua evangelizzazione con il martirio. Sulle note di un’elegia barocca risuonano gli echi di un lontano passato, i cui misteri si infrangono nel brulicare di putti e santi, ornamenti floreali e vegetali, altari e portali, scolpiti nella tenera pietra, che appare dorata quando viene baciata dai raggi del sole.


Taranto, con i suoi monumenti in brandelli, muta e dolente testimonianza di vetusti fasti, non cessa di rimanere aggrappata alle sue gloriose radici nel disperato tentativo di distrarsi dai disagi sociali e dall’inquinamento emesso dagli stabilimenti siderurgici. 



Taras, la città dei due mari, venne fondata alla fine dell’VIII sec. a.C. dai coloni spartani guidati da Falanto che, secondo la profezia, approdarono lungo la scogliera di Satyrion con l’obiettivo di fondare una grandiosa città, la cui memoria aleggia ancora tra le colonne superstiti del tempio dorico arcaico. 


















La 
La colonia laconica, per la sua posizione strategica, assurse dapprima a capitale della Magna Grecia e, tra il 1085 e il 1465, venne eletta a sede di un influente principato considerato tra il 1399 e il 1463 come un vero e proprio regno nel Regno di Napoli. Alla morte di Raimondello Orsini del Balzo, si levarono alti i vessilli di Maria d’Enghien e del figlio Giovanni Antonio, che, con sforzo sovrumano, contribuirono alla fioritura delle arti, della cultura e del diritto nel territorio del principato, concorrendo finanche al trionfo del rito latino su quello greco. 


Il potere persuasivo dell’arte, allo scopo di veicolare il messaggio politico orsiniano, venne esercitato in modo incomparabile a Galatina in provincia di Lecce nello scrigno in stile tardo-gotico della meravigliosa basilica francescana di S. Caterina d’Alessandria, dove, lo sforzo dinastico di rigenerazione della casata raggiunse il culmine prima di imboccare il viale del tramonto.




Con impeto drammatico, le gesta eroiche di contesse, elevate al rango di regine, di sovrani e soldati di ventura, entrati in possesso di feudi attraverso guerre o alleanze, siglate per mezzo di matrimoni combinati, si dipanano tra le mura e i cunicoli del castello aragonese di Taranto, che non finisce di stupire in virtù dei suoi segreti. 
Per la sua possente mole esso venne convertito in estremo baluardo per respingere i pirati, che, frequentemente, si materializzavano come fantasmi dall’arcipelago delle Cheradi.





Nel borgo antico, costellato di chiese, rifulge in tutto il suo splendore il Duomo, ma, senza ombra di dubbio, le perle più preziose sono custodite nelle vetrine del Museo Archeologico  Nazionale. 




















Il 
Il complesso museale accoglie splendidi reperti di inestimabile valore al fine di ricostruire il quadro storico-artistico e culturale della colonia magno greca e dei rapporti instaurati con i territori confinanti interessati da civiltà indigene come quella messapica.

Nel Salento messapico sono innumerevoli i resti di villaggi di capanne il più delle volte trasformatisi in cittadelle cinte da un poderoso circuito murario di pietra, che racchiudeva al suo interno case e templi, mentre all'esterno erano ricavati gli spazi destinati alle necropoli, dove venivano sepolti i defunti insieme al corredo funebre. 






Innumerevoli testimonianze, in qualche caso, sono occultate sotto gli edifici moderni, in altri sono rimaste relegate in sperdute contrade, immerse nella quiete della campagna costellata di ulivi secolari. 
È proprio all’ombra dei patriarchi verdi che si materializza la visione mistica di un mondo perduto, dove continuano a vibrare straordinari giacimenti archeologici a cielo aperto. 
        





















                                 























                                      




Le mutazioni sequenziali si possono scorgere in modo particolare a: Cavallino, Rudiae, Vaste, Alezio, Castro, Rocavecchia, Muro Leccese e Ugento e in tutti quegli insediamenti minori che hanno attraversato secoli di storia, aprendosi agli scambi commerciali con i popoli che si affacciavano lungo il bacino del Mediterraneo. 









Un mare cristallino avvolge in un tenero abbraccio i relitti di età romana, naufragati in località Torre Sinfonò ad Alliste. Più a nord Torre Santa Sabina, nei pressi di Carovigno, per secoli svolse funzione di approdo per le navi che dall’Oriente risalivano l’Adriatico o vi facevano tappa per commercializzare mercanzie con i centri interni, sia in età tardo antica sia ancor prima quando il Salento era denominato Messapia e agli occhi degli intrepidi equipaggi micenei e greci, che solcavano rotte leggendarie, appariva come una terra circondata da ogni lato dal mare. 



Un mare amico e nemico, amato e temuto sino al punto che i popoli navigatori affidavano suppliche agli dei sulle pareti di alcune grotte-santuario come la Grotta Poesia a Roca e la Grotta Porcinara sul Capo di Leuca. Sulla scia degli avi, dopo aver offerto doni, i marinai ringraziavano la divinità per aver concesso loro una difficile traversata in balia delle correnti e per giunta senza bussola. 



Nel volgere degli eventi bastava una tempesta per provocare la perdita del carico trasportato o il naufragio della stessa nave con tutti gli uomini a bordo come documentato dai numerosi naufragi. In età romana venivano trasportate anfore contenenti vino, olio d’oliva e garum; colonne di marmo, come quelle abbandonate, forse per alleggerire l’imbarcazione in difficoltà, nei pressi di Torre Chianca a Porto Cesareo; mastodontici sarcofagi in marmo, come quelli che giacciono immobili sul fondale di San Pietro in Bevagna.

















Nel Salento preistorico l’epico pellegrinaggio attraverso i millenni mosse i primi passi nelle grotte a picco sul mare e nelle viscere della terra. 



Queste stazioni preistoriche furono il punto di riferimento delle tribù, che, tra il Paleolitico ed il Neolitico, vissero nella baia di Uluzzo, incastonata lungo il litorale jonico, mentre sul versante adriatico l'incidenza di frequentazione è attestata, soprattutto, in Grotta Zinzulusa, Romanelli e nella Grotta dei Cervi di Porto Badisco. 




Nonostante la chiusura al pubblico, per non alterare il delicato microclima interno, la Grotta dei Cervi, costituisce l’esempio più emblematico di grotta-santuario che accolse le prime manifestazioni di arte rupestre. A pieno titolo domina per il suo repertorio pittorico tanto da essere definita come la Cappella Sistina della preistoria. 





Sulle pareti e sulla volta, soffiando il colore dalla bocca e con l’ausilio delle mani, le genti che la frequentarono almeno sino all’età dei metalli, con l’auspicio di propiziare salute, abbondanza di cibo e ricchezza di caccia per il clan, rappresentavano quello che per loro rivestiva una valenza simbolica; non solo animali da cacciare, ma anche segni, disegni, arabeschi e pittogrammi, dando vita ad uno stupefacente libro di pietra.



Dalla scintilla della preistoria si innescò la fiamma della storia. Protagonisti della “terra di mezzo” furono i Messapi, che si radicarono da Egnazia sino all’Akra Iapygia, ossia il promontorio di Leuca, in un pullulare di città fortificate da muraglioni colossali, intervallati da porte, nel tentativo di difendersi dai nemici e di respingere i coloni laconici di Taranto ammirati perché detentori di una cultura superiore, ma temuti visto che non esitavano a macchiarsi di atti empi e sacrileghi.
Pastori e agricoltori pacifici pronti a tramutarsi in indomiti guerrieri, i Messapi, iniziarono a commerciare dapprima coi Micenei e poi con i Greci che li soggiogarono almeno sino a quando non decisero di ribellarsi alla loro arrogante supremazia, scendendo in guerra. 

Fu solo allora, che, in preda ad un odio atavico, rivoltarono nella terra uomini e déi di matrice ellenica. Nel clima di oscurantismo a finire sotterrato, al di sotto di un capitello dorico con abaco decorato da rosette, fu il simulacro bronzeo dello Zeus rinvenuto casualmente nel 1961 ad Ugento ovvero la messapica Ozan.


Alla caduta dell’impero romano nel Salento ancora una volta mutarono gli assetti politici e territoriali. Nel fragore delle armi e nel frastuono degli eccidi, iniziò a risuonare incessantemente la preghiera elevata al cielo nelle umili cripte ipogeiche, affrescate ieraticamente dai monaci italo-greci trasmigrati dall’Oriente nel disperato tentativo di sfuggire alla guerra iconoclastica scatenata nell’825 dall’imperatore bizantino Leone III detto l'Isaurico.









E, dopo i Bizantini, si alternarono al potere i potentati di Svevi, Normanni,  Angioini e Aragonesi, pronti a rivendicare feudi e privilegi, offrendo in cambio protezione a sudditi inermi, condannati a pagare dazi e balzelli onde evitare di marcire in oscure prigioni.

Per non arrendersi alla caducità della vita i più deboli trovarono rifugio in un microcosmo gravitante intorno a casali fortificati, come quello di Acaya, e alle cosiddette “terre”, come quella di Borgo Terra a Muro Leccese.  
In un'epoca di caos e di barbarie, nel disperato tentativo di sfuggire alle frequenti invasioni e devastazioni, si propagò a macchia d’olio il fenomeno dell’incastellamento. 





















I castelli divennero espressione materiale del potere dei feudatari, che li edificavano e li ostentavano sia come manifesto auto celebrativo del loro alto lignaggio sia per incutere timore reverenziale. In qualche caso questi manieri assolsero ad insolite funzioni così come si verificò per il castello di Roca, di cui è sopravvissuto una torre diruta su una falesia a picco sul mare. Gli Aragonesi lo convertirono in acquartieramento logistico da dove sferrare l’attacco per riconquistare Otranto caduta in mano ai Turchi. Ma al tempo dell’imperatore asburgico Carlo V il maniero, pur essendo strategico, venne smantellato per scongiurare che divenisse covo di pirati a caccia di bottino e di schiavi.





In un cuore rovente si solitudine, nel segno dei tempi, diversi castelli caddero in rovina sotto il fardello del degrado e dell’abbandono. Quelli che scamparono alla distruzione e all’oblio, nel loro ultimo stadio, rimossero la corazza di baluardi predisposti a resistere alle armi da fuoco.  



Fu allora che vennero ripristinati e ingentiliti per essere definitivamente convertiti in sfarzose dimore gentilizie, sotto il pallido riflesso di costellazioni ossessive di stemmi araldici, come nel caso di Muro Leccese, Tricase, Corigliano d’Otranto e in tanti altri borghi romiti del Salento, dove si respira storia quando soffia il vento.





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