Nel ventre della terra, alla
fiammella tremula delle lucerne, la goccia buca la roccia, intrisa di rimorsi e
di rimpianti, ma soprattutto di sogni inconfessabili, evaporati nella bolla
acre della morchia e della sentina. In anfratti dimenticati si annidano i
templi sotterranei, dove continua a pulsare il cuore millenario della civiltà
contadina. A popolarli, nella fantasia, gnomi e folletti dispettosi, nella
realtà, uomini nerboruti, unti di grasso e votati al sacrificio sino allo
sfinimento.
Il silenzio improvvisamente è
rotto da echi di mastodontiche ruote molari un tempo mosse da muli e somari condannati
a girare sino a stramazzare al suolo agli ordini di operai stagionali costretti senza sosta a lavorare di giorno e di notte per ricavare dalla molitura delle
olive e dalla separazione del nocciolo dalla polpa: il prezioso olio
considerato come un elisir di lunga vita. In un’intricata selva di grotte
ipogee o semi-ipogee, tramutate in opificio, deposito, soggiorno, dormitorio e
ricovero per gli animali, uomini scalzi dall’odore pungente, quasi senza
fiatare, per non consumare l’aria irrespirabile e per
risparmiare energie, volteggiano nell’oscurità come fantasmi consapevoli di
scontare la loro pena da vivi in quel girone infernale; nel buio come fanali
spiccano solo i loro bulbi oculari. Un tempo erano loro i signori incontrastati
del frantoio, in dialetto locale trappeto (dal greco trapeton torchio e dal latino trapetum
macina), in cui sgorgava a fiumi l’oro liquido del Salento. In ogni tomolo una
lacrima di dolore e di sudore, in ogni fiscolo un balsamo di speranza per una
vita migliore. D'altronde erano i tempi in cui si lavorava in condizioni
disumane pur di portare a casa il condimento per una minestra di avanzi e un
misero tozzo di pane.
In quella buia prigione si correva
il rischio di sobbalzare al tonfo cupo provocato dallo svuotamento dei sacchi di
olive attraverso le sciave una sorta di camini comunicanti con l'esterno.
A spron battuto si osservava l'imperativo categorico di velocizzare lo
scarico per non intasare la strada lastricata, invasa da un’interminabile fila
di carri sgangherati, onde evitare di rallentare le operazioni di
trasformazione entrate ormai a pieno regime e scongiurare l’ineluttabile innesco
del processo fermentativo, che poteva incidere sulla qualità dell’alimento
principe della dieta mediterranea.
La lunga processione di carri
cigolanti si dipanava senza tregua dall’alba al tramonto dalla campagna al
frantoio, dove contadini e braccianti, avvolti in un turbinio di imprecazioni, rimanevano
al varco in trepida attesa allo scopo di aspettare il turno della frantumazione
delle olive raccolte rigorosamente con le mani intirizzite dal freddo. Al calar
delle tenebre il respiro dei frantoiani (trappitari) esausti diventava sempre
più affannoso a causa del calore sprigionato dal sottosuolo. Ad intasare ulteriormente l’aria irrancidita il fiato degli
animali a stretto contatto con uomini condannati a vivere per lunghi mesi in
condizioni igieniche quasi inesistenti. Dopo una massacrante giornata lavorativa
li attendeva la consumazione di un pasto frugale a base di pane raffermo e
legumi cotti nelle pignatte di creta (pignate)
e conditi con l’olio attinto con un mestolo dal pozzo dell’angelo. Il banchetto
collettivo, consumato quasi senza appetito, veniva generosamente innaffiato con
boccali di vino; una panacea prima del sospirato riposo sulla nuda pietra o su
qualche giaciglio improvvisato, rimediato in qualche angolo.
Numerosi trappitari, secondo la
consuetudine, discendevano in grotta verso la fine di ottobre con il desiderio
di ritornar a rivedere le stelle nella bella stagione, allorquando nelle vesti
di marinai avrebbero preso il largo in mare aperto. Altri avevano guadagnato la
discesa agli inferi il primo di novembre, festa di Ognissanti, con la
consapevolezza di rimanere relegati sino alla Santa Pasqua e di fare un fugace
ritorno a casa soltanto in occasione della festa della Madonna Immacolata, del
Natale e del Capodanno. A dirigere la ciurma un nachiro investito del ruolo di
nocchiero al timone della nave del trappeto.
Nella solitudine austera dei
giorni e dei mesi interminabili nella mente si affollavano i pensieri sospinti
dal vento del ricordo. A Muro Leccese nel frantoio dei Protonobilissimo un
anonimo nachiro affidò alla pietra una delle più cruente battaglie combattute tra
turchi e cristiani; un episodio della storia così lontano nel tempo eppur così
vicino per il terrore che ancora suscitava. Sulle pareti disadorne di quel
laborioso oleificio raffigurò una composita scena che si presta tuttora a
molteplici interpretazioni. Nella scenografia del conflitto tra Islam e
cristianesimo dominava una città fortificata con due torri angolari munite di
cannoni; in cima ad una di esse sventolava la bandiera di Messina.
Nel mare una flotta da combattimento solcava le onde mentre il sole, la luna e
le stelle indicavano l’inesorabile trascorrere del tempo come quello scandito in
un pugno di sabbia di una clessidra. Un cherubino del giudizio e la morte con
la falce sovrintendevano alla battaglia dall’esito incerto per la miriade di
forze schierate in campo. Palese il rimando alla battaglia di Lepanto, quando
la flotta della Sacra Lega cristiana, salpata dal golfo di Messina al comando
di don Giovanni d’Austria, sconfisse l’armata turca il 7 ottobre del 1571. Ma
non è esclusa la rievocazione della presa di Otranto operata dai Turchi nel
1480 e sfociata con la decapitazione degli ottocento martiri. Qualunque sia
l’evento graffito esso era rimasto indelebilmente impresso nell’immaginario di
quel nachiro, che ne voleva tramandare la memoria, avendolo appreso da qualche
racconto popolare o avendolo vissuto in prima persona al seguito dei principi
muresi, accorsi a combattere al fianco dell’esercito cristiano.
Seppur nel turbinio del processo
produttivo la vita scorreva lenta nelle inospitali fucine impregnate di sansa e
di fuliggine, dove da tempo immemorabile si ripeteva un rituale scandito da preghiere, che
accompagnavano le varie fasi di trasformazione dell’ogliarola in grado di
rendere un olio delicato leggermente fruttato e della cellina dal sapore più
intenso quasi piccante. Quando le olive macinate venivano sottoposte alla
torchiatura e alla separazione dell’olio vero e proprio dalla sentina, destinata
a depositarsi nei pozzetti di decantazione, la temperatura nei vari ambienti
scavati nella roccia, doveva rigorosamente aggirarsi tra i 18-20 gradi centigradi
per favorire il deflusso del liquido dorato. Era questa la regola aurea che
vigeva nel villaggio rupestre dei trappeti. Nel 1880 in Terra d’Otranto ne funzionavano
a pieno regime millesettecento, quasi tutti ipogei. Alcuni di essi erano
annessi alle grancie basiliane (XII-XIII sec.) o collegati con masserie e
casali (XV e XVI sec.) in prospettiva di un’economia di sussistenza. Tra la fine
del Settecento e la prima metà dell’Ottocento nella labirintica ragnatela
sotterranea ne pulsavano dodici a Calimera, tredici a Carpignano, ventisette a
Casarano, quindici a Copertino, trentacinque a Gallipoli, venticinque a
Galatone, diciannove a Martano, quindici a Minervino, ventitre sia Presicce che
a Ruffano, diciotto a Salve, venticinque a Tricase, venti a Vernole, nove ad
Acquarica del Capo, cinque ad Alliste, tre a Felline, sette a Melissano e otto
a Racale. Nel brindisino uno tra i più apprezzati era quello sterminato di Torre
Santa Susanna, mentre nel tarantino colpiva per il suo impianto innovativo
quello incastonato in un’ala del castello di Avetrana. La tipologia della
pianta era longitudinale, mistilinea e articolata. Generalmente l’accesso era
consentito attraverso una serie si scalini scavati nella roccia. I torchi
adottati erano del tipo alla calabrese, ma, a partire dalla fine del Settecento,
vennero soppiantati progressivamente da quelli alla genovese, che garantivano
una perfetta spremitura della pasta delle olive. Qualunque fosse la loro
tipologia rappresentano mirabili esempi di archeologia industriale.
L’olio salentino, molto più richiesto per l’illuminazione, la fabbricazione dei saponi e la manipolazione della lana rispetto all’uso alimentare, veniva esportato in tutto il bacino del Mediterraneo. Via mare raggiunse persino quella che fu un tempo la capitale dell’impero d’Oriente: Costantinopoli fino al punto che la sua produzione e la relativa commercializzazione divennero fonte di ricchezza economico-finanziaria. Non a caso il Regno di Napoli acquisì ricchezza e prosperità, puntando sulle imposizioni fiscali olearie molto più remunerative rispetto ad altri dazi e gabelle. Baricentro del mercato salentino dal 1500 sino agli inizi del 1900 fu Gallipoli, la perla dello Ionio, che assurse a rinomata piazza commerciale su scala europea.
Nel 1484, quando i Veneziani la cinsero d’assedio, ingente fu il
bottino di guerra razziato dai trentacinque frantoi urbani e da quelli sparsi
nei paesi limitrofi così come si evince dalle cronache dell’epoca. Una volta
imbarcato sulle navi l’olio prendeva il largo verso le nazioni europee per
essere utilizzato soprattutto come liquido lampante. Seppur con sommo rammarico
il pontefice Gregorio XIII con una bolla del 18 aprile del 1581 esonerò dalle
liturgie domenicali gli operai impegnati nel carico delle navi olearie di
stanza nel porto gallipolino. In quel solco rimase anche papa Sisto V in quanto
il lavoro di carico e scarico non poteva essere rallentato per non ridurre il
volume di affari dell’olio d’oliva utilizzato, sin dall’antichità, per ungere
re, consacrare sacerdoti e per condire il pane dei poveri.
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