sabato 27 febbraio 2016

Nella notte dei tempi del sacro e del profano

Il rapporto ancestrale con l’arcano si perde nella notte dei tempi, proiettando ombre che si perdono sino a noi. Sin dal Neolitico la vita dell’uomo fu pervasa dal senso del sacro considerato impalpabile poiché ultraterreno. La fascinazione per il mistero e la potenza soprannaturale funsero da humus ad una religiosità istintiva e pervasiva.

 


Con impeto infinito le prime comunità agricolo-pastorali cercarono di istituire un rapporto con la divinità, che, attraverso meditazioni metafisiche, immaginavano potesse albergare nelle pieghe più riposte della terra, nelle nuvole del cielo e negli abissi del mare.


A questa entità superiore attribuivano il prodigio della vita animale e vegetale, e, nel tentativo di accattivarsi la sua benevolenza, la onoravano con sacrifici e libagioni, che compivano in grotte e ante grotte, recitando formule ermetiche e ossessive come un mantra. A cavallo della rivoluzione culturale e sociale, che segnò il passaggio da tribù nomadi a sedentarie, germogliò il culto della fertilità, incentrato intorno alla dea madre della creazione, venerata, in vari tempi e vari modi, da tutte le popolazioni, che si affacciavano lungo il bacino del Mediterraneo. 



A documentarlo sono i ritrovamenti di numerose statuette femminili, sfacciatamente sensuali, definite convenzionalmente “Veneri”, che venivano scolpite da ingegnosi artisti in osso, in terracotta o in pietra sulla scia di canoni standardizzati. Questi precursori di intagliatori e scultori con le loro abili mani abbozzavano volto, gambe e braccia, esasperando seni, pancia, fianchi, glutei e ventre, in sintonia con il culto dedicato alla fecondità, che contemplava tra l’altro l’accentuazione degli organi sessuali, esaltando la fertilità sublimata dalla maternità.

Nel panorama dei culti preistorici accanto alle vulve comparvero anche i falli, ai quali si attribuiva un potere sacro, basti pensare al piccolo idolo rinvenuto nel 1968 in una tomba artificiale del rione Riesci ad Arnesano in provincia di Lecce. In una dimensione magico-religiosa lo scopo di questi idoletti, una volta conficcati nel terreno o deposti nelle sepolture, era anche quello di proteggere i villaggi, allontanando nemici in carne e ossa, forze occulte e spiriti del male forieri di malattie e morte; ma non si esclude, che mettessero in comunicazione il mondo dei vivi con quello dei morti e venissero invocati nel momento del trapasso da quanti non si arrendevano alla caducità della vita. 

Trascorso il tempo dell’abbandono dei cadaveri alle intemperie e agli animali sopraggiunse il pietoso rituale del seppellimento, preludio al culto dei morti, il più antico e universale di tutti. Frequentemente il corpo veniva calato in una fossa e ricoperto con un lastrone di pietra oppure inumato in qualche anfratto. In molti casi veniva cosparso di ocra rossa, mentre intorno alla testa veniva adagiata una cuffia di conchiglie forate, come nel caso della donna tumulata, insieme al suo bambino mai nato, nella grotta di Santa Maria d’Agnano ad Ostuni in provincia di Brindisi nel Paleolitico Superiore.


Nel primitivo sistema di credenze religiose le manifestazioni artistiche delle “Veneri” magnificarono il concetto dell’esistenza di un’entità divina superiore in grado di generare per partenogenesi e di esercitare il potere di sovrintendere alle dinamiche conflittuali tra allevatori di bestiame ed agricoltori. Finché la società fu matriarcale dominò la dea madre, quando si trasformò in patriarcale, sulla stessa lunghezza d’onda della cultura dei popoli pastori, emerse prepotentemente la figura del dio padre, re, guerriero, eroe e sacerdote. Il principio creatore divenne maschile; esplose la violenza e soffiarono venti di guerra con il profilarsi all’orizzonte di armi tecnologicamente più evolute. 



Rappresentazione dell’ideale estetico dei popoli agricoltori e delle loro credenze, il culto delle “Veneri”, progenitrici della Grande Madre, era delegato a donne privilegiate, che, consultate, amate, temute, servite e riverite dai membri della comunità, nelle vesti di regine o di sacerdotesse, in via del tutto eccezionale, vivevano o operavano all’interno di grotte-santuario, dove, in preda a stati alterati indotti da sostanze allucinogene, alimentavano il mistero della vita, implorando un ritorno nel grembo materno Proprio una di queste caverne-santuario, individuata nel 1966 a Parabita in provincia di Lecce, ha restituito due statuine in osso levigato rappresentanti la donna-madre in avanzato stato di gravidanza. Sebbene rinvenute in una stratigrafia sconvolta, i paletnologi le collocano in seno al deposito gravettiano contestualizzato lungo la Serra di Sant’Eleuterio tra 12.000-11.000 anni fa.


I miti e i riti delle comunità preistoriche rimandavano ad archetipi primordiali, che celebravano la ierogamia tra cielo e terra. Con l’affermarsi di un’economia agricola la necessità di disporre di uno strumento per calcolare i momenti della semina e del raccolto, i solstizi e le fasi lunari, divenne un bisogno primario per la sopravvivenza della comunità, che, alla mercé di tutte le forze naturali, tra terrore e stupore, si poneva sotto l’egida della divinità primigenia. 








Nel ciclo naturale umano e cosmico il fenomeno del transito di stelle e costellazioni, venne associato a culti e riti, come dimostrato da recenti studi sugli orientamenti dei monumenti megalitici (dolmen e menhir) disseminati in tutta Europa e convertiti sia in tombe sia in altari, che gettavano un ponte tra il mondo uranio e quello ctonio
Nel Salento le lontane tracce dell’uomo e dell’oscura pratica di riti propiziatori e sciamanici sospingono nei profondi recessi delle viscere della terra e lungo le scogliere a picco sul mare, dove, in una propaggine di paradiso selvaggio, furono frequentate dal Paleolitico all’età dei Metalli: Grotta dei Cervi (Porto Badisco), Grotta dei Cappuccini (Galatone), Grotta delle Veneri (Parabita), Grotta del Cavallo (Porto Selvaggio), Grotta Romanelli (Castro). Considerati come punto di riferimento dalle tribù, che vivevano nella zona, questi antri, in alcuni dei quali si compivano veri e propri cerimoniali di iniziazione e di propiziazione, rappresentavano veri e propri luoghi dello spirito e di associazioni simboliche.






Nella Grotta dei Cervi di Porto Badisco il simbolismo spirituale delle popolazioni, che la frequentarono, aleggia ancora sulle pareti e lungo la volta, dove si possono sfogliare le pagine di un libro di pietra affrescato con un repertorio iconografico di mirabile bellezza per certi versi sibillina. 
Episodi di caccia al cervo, impronte di mani, stelle, arabeschi, spirali e losanghe venivano dipinti con ossido di ferro, carbone di legna e guano di pipistrello, ricorrendo ad una tecnica sfibrante, che assumeva un’alta valenza simbolica. La stessa che pervade le grotte di Lascaux (19.000-15.000 a.C.) e Chauvet (33.000-29.000 a.C.) in Francia e quella di Altamira (15.000-11.000 a.C.) in Spagna animate da bozzetti di cacciatori e disegni di animali (branchi di cavalli, mandrie di bisonti e cervi) assurti a principali protagonisti dell’arte rupestre preistorica. 


Soffiando il colore dalla bocca l’artista proiettava la propria ombra sulla roccia, affinché, nella brutale lotta per la sopravvivenza, la divinità concedesse al suo clan scorte di cibo, acqua, riparo oltre al rifornimento di selvaggina attraverso la caccia. 






Nel respiro sciamanico della Cappella Sistina della preistoria salentina si annidava il mistero tra materia e spirito, che continuò ad incutere fascino e timore reverenziale alle civiltà, che fiorirono successivamente lungo il bacino del Mediterraneo. 






In questo contesto, chiuso come un cortile a cielo aperto, nel corso dei secoli, si propagò a macchia d’olio il più alto numero di culti tributati a divinità deputate alla semina, al raccolto e alla rinascita della vita. 

Sul fronte egiziano si affermò il culto di Iside e Osiride; nel mondo orientale quello della Magna Mater (Cibele); in quello greco di Demetra e Kore (Persefone) adottato altresì nel santuario tesmoforico di stampo magno greco scoperto nel centro messapico di Oria; e in quello romano di Cerere e in modo particolare di Bacco il Dioniso della tradizione greca. 








Senza ombra di dubbio in questo culto, in cui covò il germe dei Baccanali, si celavano elementi delle iniziazioni tribali allo scopo di acquisire da parte degli adepti l’energia vitale in prospettiva del raggiungimento dell’estasi. Il dio del vino e del delirio mistico, incessantemente raffigurato sui crateri utilizzati nel corso del simposio, era invocato affinché concedesse ai membri del thiasos il sacro furore sulla scia di arcani rituali culminanti ab origine con sacrifici cruenti a suggello della morte, discesa agli inferi e rinascita dell’inquietante dio.




La primitiva religione naturale, espressione delle forze della natura, fu adombrata da un pantheon di divinità antropomorfe, che, seppur immortali, conducevano, nell’immaginario collettivo, una vita del tutto simile a quella degli esseri umani. Il mondo dei morti divenne il regno del sovrannaturale. Dagli altari cerimoniali primitivi, bagnati dal sangue dell’olocausto, si passò agli impianti cultuali, delimitati da cippi in pietra ai cui piedi venivano versate libagioni, sino a pervenire ai magnifici templi delle città stato greche nel volgere dei quattrocento anni successivi al crollo dei regni micenei.
 



L’offerta delle primizie della terra (cereali, legumi, frutti, bevande e latte appena munto) venne sostituita dalla consuetudine da parte dei devoti di offrire doni e oggetti preziosi, che confluivano nel tesoro del tempio affidato alla tutela dei sacerdoti. I ministri del culto, in veste di custodi, erano gli unici a cui era consentito l’ingresso nella cella sacra, ossia il santuario, in cui era alloggiata la maestosa statua della divinità venerata. Ad ogni dio, degno di essere adorato, venne dedicato un altare sul quale venivano compiuti sacrifici rituali di vittime sacrificali. 



Il tempio, che rifletteva l’armonia del cosmo, divenne luogo di culto, ma anche cuore pulsante dell’arte divinatoria, che, a Roma antica si esprimeva attraverso la consultazione dei fulmini da parte degli auguri e delle viscere degli animali o il volo degli uccelli da parte degli aruspici sulla base dei meticolosi canoni etruschi. Nell’antica Grecia presagi e messaggi profetici venivano tratti da calderoni in bronzo, dal volo degli uccelli e dallo stormire delle foglie del platano sempre verde a Creta e dall’ulivo piantato sull’acropoli di Atene da Athena nume tutelare della città ritenuta a pieno titolo la culla della civiltà occidentale. 



Responsi oscuri risuonavano a Delo e in modo particolare nel santuario di Delfi eletto a dimora di un portentoso oracolo conosciuto come Pizia. A Dodona, nel più antico epicentro oracolare del mondo antico, all’ombra di una quercia, dimorava il re degli dei: Zeus. Lo stesso dio era venerato con l'epiclesi di Batas nel santuario emporico di Grotta Porcinara presso il Capo di Leuca. 


Lo stesso dio della luce, della folgore e dei fenomeni atmosferici veniva invocato sull’acropoli di Ozan, la messapica Ugento, con l’epiclesi di Zeus Kataibates di matrice greco-tarentina. In un recinto sacro monumentalizzato il dio fulminatore svettava su una colonna votiva, sormontata da un capitello ornato con rosette. Dopo ogni temporale, i Messapi si stringevano attorno al simulacro bronzeo, raffigurato nudo mentre con la mano sinistra artigliava un’aquila e con la destra brandiva la folgore destinata ad essere scagliata contro gli iniqui e i sacrileghi.




All’apice dello splendore di una mitica affabulazione, i malati si recavano nel santuario di Asclepio ad Epidauro per ottenere la guarigione. Dopo bagni lustrali di purificazione si abbandonavano ad un sonno ristoratore, sperando nell’apparizione del dio e nella sua magnanimità a suggerire loro un farmaco per guarirli dalla malattia. In prospettiva di un ritorno dopo la morte, i defunti tornavano nel grembo della madre terra con l’auspicio di rinascere a nuova vita, così come promesso dai culti misterici. 


In una visione onirica questi culti per soli iniziati, intimamente connessi alla fertilità (ostensione della spiga di grano) e alla fecondità (presenza nel sacro paniere del sacro fallo di Dioniso), venivano mandati in scena ciclicamente nel santuario panellenico di Eleusi in onore di Demetra e Kore. La simbologia fallica venne infervorata dal culto di Cibele e Attis la cui auto evirazione rappresentava il sacrificio in cambio della fertilità della natura. Nel corso della notte sacra, dopo aver digiunato per nove giorni, bevendo il ciceone a base di segale cornuta in grado di provocare effetti allucinogeni, i partecipanti ai grandi e ai piccoli misteri, scendevano in una cavità sotterranea per risalire al lume di fiaccole, essendo venuti a conoscenza dei segreti della vita e della morte. In un’aura mistica il cammino iniziatico degli adepti dal buio si spingeva sino alla luce della gioia della pax deorum a suggello di un equilibrio armonico rivelatore di una sintesi osmotica tra vita e morte e tra carne e spirito. 


Gli uomini, in preda ad una visione onirica, dilatarono l’universo degli dei pagani, destinati ad essere vilipesi ed estirpati dalle brutalità del cristianesimo primitivo incline a divellere statue e ad incendiare templi e biblioteche in nome della rivoluzione fomentata da una religione monoteistica, che, il più delle volte, prese in prestito il meglio dei culti pagani tanto osteggiati, in primis quello tributato in onore del dio Mithra. 


La chiesa cattolica, alla fine, pur osteggiando strenuamente i culti pagani non li annientò, al contrario li contaminò in un sincretismo straordinario in grado di resistere al mare tumultuoso della storia.







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